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Pubblicato il Maggio 8th, 2017 | by DDG

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Stormy Six – Niente resta uguale a sé stesso

Io vivo qui / e non ci vivo mai. / Ma forse vivere / è un termine un po’ forte / per quello che facciamo ogni giorno / per il tempo che abitiamo.

Nei ciclici recuperi che hanno toccato anche le diverse famiglie di gruppi e suoni italiani degli anni ’70, gli Stormy Six non hanno mai ricevuto la visibilità meritata, a dispetto del valore dei loro dischi e dei musicisti, come Umberto Fiori (voce e testi, e oggi uno dei maggiori poeti italiani) e Franco Fabbri (chitarra, e musicologo di chiara fama, autore di una serie di studi consigliatissimi sul suono in cui viviamo). Difficile includere in qualche tipo di revival un gruppo che ha sempre scelto di stare altrove: lo straniamento espresso nelle stupende liriche di Fiori è simmetrico a quello di musiche che in quasi cinquant’anni (segnati da un numero minimo di dischi) si sono evolute tra folk, prog, rock, wave, contemporanea, senza mai essere dentro qualche scena, per la naturale refrattarietà a dogmi e regole che li rende tuttora attuali e inclassificabili.

La storia inizia negli anni ’60, addirittura col beat: ma i tempestosi sei del rhytm & blues che apriranno per i Rolling Stones sono di fatto un altro gruppo, e la rifondazione del 1967, che porta al country rock di LE IDEE DI OGGI PER LA MUSICA DI DOMANI, è lontana dalle vette a venire. Il discorso politico avviato col successivo L’UNITÀ causa l’arrivo di Fiori, del violinista Carlo De Martini e del polistrumentista Tommaso Leddi: iniziano gli Stormy Six veri, anche se il nuovo esordio folk acustico di GUARDA GIÙ DALLA PIANURA non è ancora memorabile. I musicisti sono intanto entrati in contatto col Movimento Studentesco: e l’esperienza politica li porta al primo dei numerosi straniamenti della carriera, con l’adesione ai principi – Autonomia! Impegno! – interpretata attraverso il rifiuto della scelta più comoda. Invece di allinearsi, gli Stormy Six si rendono indipendenti: fondano quindi nel 1974 una propria casa discografica, l’Orchestra, la prima cooperativa musicale italiana, che in 10 anni farà esordire gruppi come Picchio Dal Pozzo, oltre a pubblicare tutti i dischi essenziali della band.




UN BIGLIETTO DEL TRAM (L’Orchestra, 1975) – Quando nel 1993 si riuniranno, per una serie di concerti che toccherà anche i centri sociali, gli Stormy Six si ritroveranno una volta di più a guardare straniati quello che li circonda: per alcuni, loro sono “quelli di Stalingrado”, l’inno in tempo dispari che apre questo disco, che vent’anni dopo qualcuno vuole pogare a tempo, come si fa con lo ska militante. Indipendente per pubblicazione e poco conciliante in termini sonori, UN BIGLIETTO DEL TRAM mostra nelle musiche di Fabbri e Leddi le influenze di tanta musica contemporanea (tracce di prog, ma anche di classica) in un suono acustico, coerente col percorso fatto. Le liriche di Fiori sono legate alla liberazione dal nazifascismo, ma riescono a trascendere il tema (come nella coinvolgente Stalingrado sopra citata, ma anche in Dante di Nanni o Nuvole a Vinca), raccontando il male della guerra e l’importanza del resistere. Un concept album anomalo e intenso, con cupezze e aperture trascinanti, cui seguirà una serie di esperimenti per il teatro, raccolta in parte nel successivo CLICHE’, disco strumentale dove sono evidenti influenze jazz e sperimentali.




L’APPRENDISTA (L’Orchestra, 1977) – Una nuova sezione ritmica (Pino Martini, basso, e Salvatore Garau, batteria – oggi pittore quotato, autore di alcune copertine del gruppo) esordisce in un’opera diversa, più vicina alla musica mitteleuropea: i temi sono politici in senso civile, declinati a volte su una forma di canzone che non ti consola / senza ritmo nè armonia. A distanza di decenni, e a dispetto dei tempi mutati, un disco ancora forte e attuale: brillano la fuga quasi prog di Il labirinto, i due inni dispari – cupa l’apertura di Buon lavoro, festosa la chiusa di L’orchestra dei fischietti, e le riflessioni sociali di Cuore e Carmine, tutte su basi acustiche confortanti solo in superficie, con le melodie intricate di Fiori a intrecciarsi a frasi di violini e mandolini, in una versione alternativa di canzone d’autore, che a dispetto della complessità aspira a diventare voce di una comunità (…quando Carmine canta, noi/ siamo ancora un popolo).




MACCHINA MACCHERONICA (L’Orchestra, 1980) – Il successivo MACCHINA MACCHERONICA rappresenta una via italiana al rock in opposition degli Henry Cow: premiato in Germania come disco rock dell’anno, mostra un gruppo talvolta teatrale (Macchina maccheronica, Somario) e addirittura ironico (le varie versioni di Madonina, ma anche la finta canzone romantica di Banca), capace di complesse suite condensate (Pianeta) contrapposte ad apparentemente rassicuranti rarefazioni poetiche (Rumba sugli alberi).




AL VOLO (L’Orchestra, 1982) – Come spiegato con entusiasmo e dovizia di argomenti e connessioni da Demented Burrocacao, AL VOLO è uno dei dischi più importanti del rock italiano, tra i rari esempi di via assolutamente credibile verso un linguaggio che non appartiene per storia al nostro paese. Il gruppo abbandona gli strumenti acustici e fa convergere il proprio gusto per la musica contemporanea verso un suono wave elettrico ed elettronico: i riff di guitar synth (Piazza degli affari) e i loop di basso (Non si sa dove stare) non arrivano via King Crimson, ma direttamente dal percorso di quello che ora è un quintetto molto compatto. Come per i coevi Wire di 154, la miscela è talmente originale da rimanere tuttora inimitata: e anche la scaletta ha delle analogie con quella degli inglesi, tra pop obliquo (Cosa danno, Roma), atmosfere inquietanti (Parole grosse, Ragionamenti) e canzone d’autore moderna (Reparto novità). A legare il tutto, la voce e le parole di Fiori, che di lì a poco sarebbe finito legittimamente nei libri di scuola, come si auspicava all’epoca per i cantautori: le sue poesie, e le linee melodiche personali e italiane, suonano ancora moderne, a oltre trent’anni dalla pubblicazione.

Ma saranno serviti / alla fine / tutti questi lavori / tutta l’organizzazione?

Il disco soffre di una distribuzione problematica, l’Orchestra stessa vacilla, e arriva il capolinea: c’è ancora tempo solo per CASSIX, progetto di composizione condivisa con gli avant-rocker tedeschi Cassiber, realizzato per la RAI. Fiori, Fabbri e Martini contribuiscono in canzoni con l’ispirazione di AL VOLO, pubblicate in seguito nel ReR Quarterly, che resteranno l’ultimo segnale dal gruppo fino al rientro dal vivo degli anni ’90: oltre alle attese ristampe, la reunion frutterà un disco live (UN CONCERTO) e una raccolta di registrazioni di vecchi concerti (purtroppo di qualità non eccelsa), che somiglia un po’ a un “best of” (MEGAFONO).




FIORI-MARGORANI – SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI (Nota, 2009) – Dopo il 1993 gli Stormy Six continueranno a essere un gruppo, ma soltanto in occasioni speciali: singoli concerti tematici, piuttosto che tournée e dischi, sfuggendo con coerenza all’imbalsamazione nel santino del gruppo-voce-del-movimento, potenzialmente remunerativa, ma da sempre rifiutata (Fiori: “Ovviamente siamo cambiati anche noi, anzi è il tempo che ci ha cambiati. Ma non abbiamo fatto le giravolte e le capriole di altri nostri compagni di percorso, e ne siamo orgogliosi”). Fiori avvia una collaborazione con Luciano Margorani (chitarrista degli sperimentalisti milanesi LA 1919): le sue poesie, tratte da opere di periodi diversi e adattate su basi chitarristiche minimali, vengono pubblicate in prima battuta come PSEUDOCANZONI a nome del solo Margorani, per poi essere inserite in un progetto più ampio, che coinvolge come autori anche Fabbri, Leddi e Martini. SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI esce come libro di poesie con CD allegato, e le 16 composizioni suonano come un’evoluzione delle ispirazioni di AL VOLO: lo sguardo acuto del narratore/cantante fotografa momenti personali, segna e misura distanze, su tappeti chitarristici minimali dove le melodie si appoggiano come nelle composizioni più riflessive degli ‘80, soprattutto quando firmano Fabbri o Leddi (Un’indicazione, Scavo). Neanche la recente discussione su letteratura e musica, innescata dal Nobel a Dylan, è riuscita a far recuperare questo CD: il destino di chi resta sempre un passo avanti, o, peggio, un passo di lato.




STORMY SIX-MONI OVADIA – BENVENUTI NEL GHETTO  (BTF, 2013) – L’ultima occasione speciale, a oggi, arriva grazie all’attore e regista Moni Ovadia, già musicista con l’Ensemble Havadia all’epoca dell’Orchestra, che propone agli Stormy Six di allestire uno spettacolo su un episodio dimenticato della storia recente, la rivolta antinazista del ghetto di Varsavia del 1943. Il gruppo, privo di Fabbri e Martini (Fiori: “Nessuna polemica, quando ci siamo riuniti abbiamo fatto date quando riuscivamo a fare combaciare i nostri momenti liberi dai vari impegni”), torna a comporre un’opera all’altezza del suo stile e della sua storia. Dati l’organico (che vede anche il ritorno di De Martini e del fonico Giorgio Albani), l’ambito teatrale e il tema, il suono è acustico, con influenze folk e klezmer: e a dispetto del tono cupo e dei vincoli, che portano a riecheggiare UN BIGLIETTO DEL TRAM (Mordechai Anielewicz), vengono scritti nuovi inni trascinanti (Benvenuti nel Ghetto – Cocktail Molotov, Il sole sottoterra), inseriti in una cornice di canzoni d’autore anomale, con le riflessioni sociali di Fiori che trascendono la storia raccontata (Canzone del tempo e della memoria, Canto dei sarti ebrei della Wehrmacht).

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