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Pubblicato il Settembre 4th, 2020 | by Antonio De Sarno

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The Tangent – Auto-Reconnaissance (2020)

Tracklist
1. Life On Hold
2. Jinxed In Jersey
3. Under Your Spell
4. The Tower Of Babel
5. Lie Back And Think Of England
6. The Midas Touch
7. Proxima (Bonus)

Etichetta InsideOut/CD

Durata 78’48”

Personell
Andy Tillison (vocals, keyboards) ● Jonas Reingold (bass) ● Theo Travis (saxophone, flute) ● Luke Machin (guitars) ● Steve Roberts (drums)

Incredibilmente il progetto The Tangent arriva all’undicesimo album e, ancora più incredibilmente, mantenendo la stessa formazione del disco precedente! Quindi stavolta i compagni di viaggio di Andy Tillison sono ancora iJonas Reingold (una garanzia) Luke Machin (ormai una sorte di braccio destro per Andy), un molto presente Theo Travis (attualmente nei Soft Machine) e l’ex Magenta/Godsticks Steve Roberts alla batteria.

Tralasciando la solita stucchevole copertina a opera di Ed Unitsky (ogni suo ‘disegno’ fa sembrare il disco uguale ai precedenti), passiamo al contenuto. Come da tradizione il disco si apre con la rockeggiante Life on Hold: il pezzo coniuga prog e funky, con Luke Machin che interviene dopo appena due minuti con un intenso assolo fusion, cosa che si ripeterà diverse volte nel corso dell’album, indicando una maggiore scioltezza rispetto al passato anche recente. Nonostante siano trascorsi oltre dieci anni, il disco ha molto in comune con DOWN AND OUT IN PARIS AND LONDON (2009). Una singolare coincidenza, dato che la title-track pone al centro la questione dell’identità britannica post-Brexit. La mastodontica suite, Lie Back and Think of England è molto ben congegnata (con frasi orwelliane come “Se mai avessi un pensiero tutto mio, quanto ci metterei a demolirlo? Se riuscissi a risolvere tutto, t’importerebbe? Oserei mai dirlo ad alta voce?”) e non cade mai nel patchwork di altri tentativi tipici del prog post ’70, anche se l’impressione è che il climax emotivo arrivi proprio attorno ai 20 minuti e il resto sia solo un’appendice. Jinxed in Jersey è l’ennesima variazione di Lost in London, in cui Andy ci narra delle sue disavventure negli Stati Uniti in mezzo a mille riferimenti alla cultura pop, da Bruce Springsteen a TJ Hooker, in parte narrato, con simulazioni di accento americano e Andy che pensa a voce alta, in parte cantato. Oltre quindici minuti di atmosfere jazzate e momenti funky, ma sempre in odore di Canterbury, diversissima dalla vecchia The Celluloid Road seppure, tutto sommato, si possa considerare una specie di sequel. Andy ruba la scena soprattutto per un assolo di sintetizzatore impazzito attorno al dodicesimo minuto, prima di lasciare spazio, nell’ordine, a Theo Travis e poi a Luke Machin, per poi riprendere con la narrazione precedente. “The Yorkshire kid in Jersey”, come si autodefinisce ad un certo punto, sembra trovare pace lontano dalla statua della libertà, che definisce “200 tonnellate di rame ossidato” o l’Empire State Building, che”non è nel suo stile”. Il tutto, visto in tempi di lockdown e proteste da costa a costa, induce una forte malinconia.

Under Your Spell è inaspettatamente dolce, tra un giro romantico di piano e una drum machine decisamente vintage che, insieme creano un’atmosfera quasi alla Style Council, per quanto possa sembrare strano. Una dichiarazione d’amore (alla sua dolce metà, Sally, naturalmente) condita anche da un’assolo, breve ma intenso, che poteva trovare posto in un disco di Prince. Come sempre sono la voce e i testi di Andy che legano tutto insieme e quando, verso la metà, il brano prende una piega quasi fusion, sembra doveroso ascoltare un Theo Travis perfettamente calato nella musica che riprende il suo andamento sdolcinato fino alla fine con un lunghissimo fade out. “Take away the fear and let it slide away” ultima frase che sembra citare il vecchio Hammill di Still Life.

Chiusura super funky con The Midas Touch: provate a immaginarvi la sigla di Charlie’s Angels in chiave prog e non vi sbaglierete di troppo. Ma Andy non è Isaac Hayes e il brano è perfettamente collocabile nel mood generale dell’album, che tenta un approccio meno spigoloso e progressivamente più rilassato. Riuscendoci alla grande, senza per forza tralasciare l’introspezione tipica del maestro Tillison. Un disco che, in ultima analisi, sembra davvero realizzato da un super gruppo perfettamente rilassato, ma teso quanto basta per tenere l’ascoltatore interessato dall’inizio alla fine.

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