Pubblicato il Gennaio 12th, 2021 | by Massimo Forni
0Änglagård – Hybris (1992)
Tracklist
1. Jordrök
2. Vandringar I Vilsenhet
3. Ifrån Klarhet Till Klarhet
4. Kung Bore
Personell
Tord Lindman – Vocals, Gibson 335, Nylon & Steel Acoustic Guitars ● Jonas Engdegård – Stratocaster, Gibson 335, Nylon & Steel Acoustic Guitars ● Thomas Johnson – Mellotron, Hammond Organ B-3 & L-100, Solina, Clavinet, Pianet, Korg Mono/Poly, Piano & Church Organ ● Anna Holmgren – Flute ● Johan Högberg – Rickenbacker Bass, Bass Pedals & Mellotron Effects ● Mattias Olsson – Sonor Drumset, Zildjian Cymbals, Concert Bass Drum, Triangles, Tambourines, Vibraslap, Po-Chung, Gong, Castanets, Line Bells, Cowbell, Wood Block, Glockenspiel, Tubular Bells, Bongos, Bells, Ice-Bell, Finger Cymbals, Waterfall, A-Gogo Bells, Cabasa, Claves, French Cowbell, African Drums & Effect-Flute
Nel 1992 un avvenimento suscitò il grande interesse degli appassionati di rock progressivo, sospesi tra il nostalgico rimpianto dei favolosi anni ’70 e la speranza di qualche altro clamoroso ritorno: la pubblicazione di HYBRIS degli svedesi Änglagård…
A distanza di tanti anni ormai, forse per la prima volta, vedeva la luce un disco autenticamente nuovo di quel genere musicale. Il baratro degli anni ’80 era definitivamente passato e il progressive-rock, sospinto dai gruppi storici degli anni ‘70, riceveva linfa da una nuova band, non solo, ma di una provenienza geografica del tutto diversa da quella tradizionale. Non una nuova “reunion”, non gli ennesimi epigoni dei Genesis o dei King Crimson: un progressivo diverso, riallacciato sì alla musicalità di quell’aureo decennio, ma con una forma espressiva e una elaborazione realmente originale. Quello degli svedesi è, anche nel rinnovato linguaggio musicale, un reale “new prog”, un debutto discografico privo di ogni incertezza, circostanza insolita per una formazione così giovane.
Quattro episodi complessi, dalla matrice chiaramente sinfonica, quasi esclusivamente strumentali, sporadicamente intervallati da qualche intervento cantato, dai toni struggenti e malinconici, tipici della tradizione nordica. Chiariamo subito alcune cose. Gli Änglagård affondano le loro radici nel progressivo storico e questo lo si può apprezzare da alcune caratteristiche fondamentali: la durata dei brani, smisuratamente ampliata rispetto alla “song” classica, il preponderante ruolo della musica strumentale, la costante e inquieta varietà ritmica, sempre mutevole e tendente a una soluzione che mai sembra arrivare. Aggiungiamo anche la frammentazione in una pluralità di episodi che arricchiscono la trama narrativa musicale e le conferiscono, proprio a causa della estrema differenziazione dei vari passaggi, una particolare suggestione: d’altra parte, va detto che questa accuratissima articolazione dei contenuti musicali richiede, come nella migliore tradizione del rock progressivo, notevoli capacità di ascolto e di concentrazione.
Änglagård è un posto reale, e qualcuno ci vive davvero. Fermiamoci qui. La traduzione migliore comunque è Giardino degli Angeli. Cosa ne pensi? È un luogo della fantasia…
Come si vede, dunque, il gruppo svedese ha assorbito bene la grande lezione del rock progressivo degli anni ’70, mutuandone alcuni aspetti fondamentali. In che cosa allora gli Änglagård, nella loro personale rielaborazione, si differenziano e conferiscono alla loro opera uno stile peculiare? Lo si può ravvisare, innanzitutto, in un’atmosfera sonora complessiva già evidenziata, e cioè il clima nordico di cui questa musica è impregnata praticamente in ogni sua nota (con l’aggiunta di qualche citazione del folclore iberico). E, poi, il ricorso costante alle sonorità organistiche induce a un’altra riflessione: le cadenze e i passaggi, che sembrano far scorgere al nostro sguardo le sconfinate brume del settentrione continentale, fanno sovvenire gli echi di autori persino antecedenti allo stesso J.S.Bach, punto culminante della musica organistica occidentale e, più precisamente, quei maestri della scuola della Germania del nord, nei quali sia i voli rapsodici della fantasia pura, sia le arditissime e rigorose elaborazioni polifoniche, manifestano essenzialmente l’aspirazione a una dimensione trascendentale, così come i loro suoni organistici sono proiettati verso le altezze soggioganti delle cattedrali gotiche.
Non c’è nella musica degli Änglagård, se non in rari momenti, la presenza di dissonanze o asprezze particolari: ma indubbiamente, come per il ritmo, l’armonia della loro musica difficilmente trova baricentri stabili. Anche sotto questo aspetto, HYBRIS può essere definito non solo un grande affresco musicale, composto da tante storie e tante sfaccettature, ma anche un vero e proprio viaggio di ricerca, contraddistinta da quella caratteristica dell’occidente nordico che ondeggia tra l’ascesi e l’inquietudine. Il lavoro, nonostante i toni cupi e malinconici, con un’esplorazione profonda dell’anima e delle sue inquietudini, non rinuncia, nella sua essenza fortemente intimistica, ad alcuni aspetti epici, a momenti di eloquenza “alta”, pur con qualche passaggio “ovvio”, alquanto retorico. Da sottolineare, al riguardo, la densità polifonica della scrittura musicale, a volte impressionante; persino quando la melodia procede in unisono, grazie ai giochi timbrici questa sensazione di complessità non ci abbandona. E poi, le modulazioni armoniche a volte audaci in un decorso generalmente “classico” e composto, la complessità ritmica e la costante diversificazione. E ancora, l’ottimo impasto tra i colori “classici” degli strumenti della tradizione e i nuovi timbri della tecnologia musicale contemporanea.
Le sonorità organistiche di HYBRIS ci sospingono verso le sconvolgenti discese negli “inferi” e le vertiginose “proiezioni cosmiche”, mentre l’atmosfera da mitologia nordica sembra condurci piuttosto nei giochi di luci e di ombre di qualche foresta incantata, così tipica nelle fiabe e nelle saghe di quei paesi.