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Pubblicato il Giugno 6th, 2020 | by Paolo Formichetti

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Andre Matos: la sinfonia dell’anima

Andre Matos (São Paulo, 14 settembre 1971 – São Paulo, 8 giugno 2019) è stato un musicista brasiliano dai molteplici talenti, famoso principalmente per essere stato il primo cantante nonché membro fondatore degli Angra. In realtà Matos è stato molto di più di un semplice front-man, avendo conseguito il diploma di conservatorio in pianoforte, canto lirico, composizione e direzione d’orchestra ed avendo messo tali competenze a disposizione di tutti i progetti musicali cui ha partecipato. Nel primo anniversario della sua scomparsa, pubblichiamo una Guida all’Ascolto dei lavori in studio che ha realizzato in carriera, escludendo pertanto i dischi dal vivo, le raccolte di rarità o demo e le decine di lavori cui ha prestato la sua voce in qualità di ospite. 




VIPER – SOLDIER OF SUNRISE (Rock Brigade, 1987) – A 10 anni Matos inizia a suonare il pianoforte e dopo soli quattro anni fonda la sua prima band, i Viper. I giovani paulisti sono appassionati della cosiddetta New Wave Of British Heavy Metal, Iron Maiden in primis, e a quel genere si rifanno le composizioni incluse nel loro primo demo ed eseguite nei concerti. Dopo aver raggiunto una certa notorietà in Brasile, la band giunge alla pubblicazione del lavoro d’esordio. Il sound di SOLDIER OF SUNRISE è piuttosto grezzo e le similitudini con i maestri del genere evidenti, purtuttavia il lavoro ottiene un buon riscontro, merito di pezzi energici, orecchiabili e ottimamente composti. La classe dei musicisti appare cristallina nonostante gli evidenti limiti a livello di qualità di registrazione, e da subito la voce di Matos si mette in luce grazie al suo particolare timbro e ad un registro vocale altissimo. La velocissima Nightmares, col suo coro tutto da cantare, l’irresistibile The Whipper che sembra un inedito della “vergine di ferro”, lo scatenato strumentale Killera (Princess of Hell) sono solo alcuni dei luminosi episodi in cui si articola un disco d’esordio imperfetto e derivativo, ma che lascia molto ben sperare per l’avvenire dei giovani brasiliani, soprattutto perché trasuda entusiasmo e passione da ogni nota.




VIPER – THEATRE OF FATE (Massacre Records, 1989) – Matos e altri membri della band si iscrivono al conservatorio e la musica classica inizia a influenzare notevolmente il loro modo di comporre heavy metal. Il sound maideniano viene infatti arricchito da partiture orchestrali, citazioni colte, aperture acustiche, un pizzico di progressive. Tali variegati elementi fanno si che, pur venendo pubblicato a soli due anni di distanza dal lavoro d’esordio, THEATRE OF FATE rappresenti un passo in avanti enorme a livello di qualità compositiva. Il disco, registrato in maniera nettamente migliore del precedente, ottiene distribuzione internazionale e raggiunge un successo notevole soprattutto in Giappone, dove scala i vertici delle classifiche. Gli otto brani della track list sono tutti eccellenti ma una menzione speciale va fatta per il trittico finale dove la fusione tra heavy metal e musica colta raggiunge picchi sublimi: Prelude To Oblivion è una cavalcata neoclassica che a tratti ricorda persino i Queen, mentre la scatenata title track e la dolce Moonlight chiudono il disco fondendo magistralmente metal a citazioni di Beethoven o partiture classicheggianti in stile. La prestazione di Matos nel disco è spettacolare e viene ampiamente lodata dalla critica di settore tanto da spingere il diciottenne musicista alla decisione di approfondire i suoi studi musicali in Germania. Il distacco segna la sua fuoriuscita dalla band in quanto, in sua assenza, i rimanenti membri decidono di semplificare lo stile compositivo tornando nel più banale alveo di un metal tradizionale, scelta con la quale Matos si trova in netto disaccordo.




ANGRA – ANGELS CRY (Eldorado, 1993) – Uscito dai Viper, il ventiduenne Matos inizia da subito a reclutare i musicisti per formare una nuova band che sia più in sintonia con le sue idee musicali. Il formidabile chitarrista Kiko Loureiro è il primo acquisto, visto che i due frequentavano la stessa scuola superiore e si conoscevano da tempo. A loro si aggiungono il chitarrista Rafael Bittencourt, il bassista Luis Mariutti e il batterista Ricardo Confessori. Il nome scelto per la formazione è Angra, la dea del fuoco adorata da alcune popolazioni di indios brasiliani. Il disco viene registrato in Germania e la realizzazione è decisamente professionale, grazie ad un’ottima produzione e a un artwork raffinato ed evocativo. L’intro orchestrale di Unfinished Allegro introduce Carry On, il brano che presenta la band al mondo e che è ancora oggi il più richiesto nei concerti: il riff iniziale di Bittencourt, le valanghe di note snocciolate da Loureiro, il tapping al basso di Mariutti e la batteria selvaggia di Confessori sono la base sulla quale l’angelica voce di Matos vola fino a raggiungere altezze vertiginose, mentre le sue tastiere ricamano partiture orchestrali di grande effetto. Dopo un simile incredibile inizio il disco prosegue sfoderando comunque brani di alto livello (la stupenda Evil Warning su tutte), perfetto connubio tra power/speed-metal e citazioni neoclassiche fino ad arrivare al secondo highlight: una riuscitissima cover di Wuthering Heights di Kate Bush in cui Matos riesce nell’impresa pressoché impossibile di non far rimpiangere le doti vocali della collega britannica.




ANGRA – HOLY LAND (Eldorado, 1996) – Il lavoro d’esordio vende bene, soprattutto in Giappone, e impone gli Angra all’attenzione di un pubblico formato prevalentemente da appassionati di metal. Matos non vuole farsi ingabbiare nel genere, a maggior ragione vista la sua dotta formazione musicale, e convince i compagni ad allargare i loro orizzonti artistici introducendo nel sound della band dosi ancor più forti di musica classica, progressive e persino elementi di musica etnica brasiliana e ritmiche tribali. Racchiuso da un artwork-capolavoro (apribile a formare una mappa di grandi dimensioni), HOLY LAND è un concept sui viaggi intrapresi nel ‘500 alla scoperta del sud-America ed è di una bellezza imbarazzante, per certi aspetti addirittura superiore ad IMAGES AND WORDS dei Dream Theater, unanimemente considerato il disco simbolo del metal-progressive. Difficile parlare delle singole canzoni senza compromettere l’omogeneità del concept, anche se una menzione particolare può essere fatta per Nothing To Say e Carolina IV, che mischiano sapientemente ritmiche samba, chitarre aggressive e orchestrazioni, per l’esalante singolo Make Believe o per le dolcissime ballad Deep Blue e Lullaby For Lucifer. Il tutto viene esaltato da un’ottima qualità di registrazione, da una prestazione strumentale pressoché perfetta e, su tutto, dalla performance vocale di Andre degna di rimanere scolpita nella storia del metal-progressive.




ANGRA – FREEDOM CALL (Eldorado, 1996) – Confortati dal successo di HOLY LAND gli Angra decidono di pubblicare, nello stesso anno, un EP piuttosto interessante. Il disco contiene poco più di 30 minuti di musica: Freedom Call, un’inedito di ottima fattura, Reaching Horizon e Queen Of The Night, due brani in origine presenti nel primo demo ma mai pubblicati ufficialmente, Stand Away dal primo disco, qui in versione orchestrale, Deep Blue dal lavoro precedente e una cover dei Judas Priest, Painkiller, piuttosto ben realizzata. Il disco, seppur non imprescindibile, rappresenta una vera e propria chicca che fa il paio con HOLY LIVE, disco dal vivo del 1997 il cui unico difetto è quello di un’eccessiva brevità che lascia inappagati gli ascoltatori.




ANGRA – FIREWORKS (Paradoxx Music, 1999) – Un capolavoro come HOLY LAND è impossibile da replicare e probabilmente gli Angra decidono di non provare nemmeno a cimentarsi nell’impresa. FIREWORKS, pertanto, è un disco piuttosto diverso dal luminoso predecessore, mancando di quegli elementi progressive e di folklore brasiliano che lo avevano reso così innovativo e originale. Fortunatamente permangono le partiture orchestrali eseguite dalle tastiere di Matos e le sue incredibili acrobazie vocali che, come già in ANGELS CRY, sono supportate da duelli chitarristici di matrice speed/power e da una martellante base ritmica. Scorrendo le tracce risulta esaltante l’opener Wings Of Reality, stupenda la dolce semi-ballad Lisbon, molto bella la title track, ma di fatto la qualità generale delle altre composizioni si attesta su una più che abbondante sufficienza che lascia parzialmente delusi gli appassionati. A peggiorare il tutto, all’interno della band insorgono disaccordi che portano a una scissione con il duo chitarristico Loureiro-Bittencourt, che rimane titolare del marchio Angra arruolando nuovi componenti, e il trio Matos, Confessori, Mariutti che si prende una pausa di riflessione per decidere come proseguire la carriera.




MATOS/PAETH – VIRGO (Century Media, 2001) – La prima opera discografica di Matos nel periodo post-Angra è frutto di una collaborazione con Sascha Paeth, musicista e produttore di Kamelot, Rhapsody e degli stessi Angra. I due decidono di discostarsi dal loro genere di riferimento e compongono un album contenente brani di rock melodico o canzoni semplici con venature pop, realizzate tuttavia con grande cura negli arrangiamenti e con l’ausilio di una piccola orchestra di archi, di fiati e persino di un coro gospel. I pezzi sono piuttosto diversificati: To Be ricorda i Queen di Innuendo, Fiction è un curioso rock anni ’60, River una ballad resa suggestiva dai cori gospel, Street To Babylon una perfetta pop song, Take Me Home un rock leggero e orecchiabile. Il disco, nel quale Matos mostra una notevole duttilità vocale diversificando molto il suo modo di cantare,  rappresenta per il musicista brasiliano una sorta di divertissment prima di tornare a produrre musica con un maggior grado di complessità ed energia.




SHAMAN – RITUAL (Mercury, 2002) – Dopo la parentesi Virgo, Matos decide di fondare una nuova band assieme alla ex sezione ritmica degli Angra ed amplia l’organico con il chitarrista Hugo Mariutti (fratello del bassista Luis), bravo ma varie spanne sotto al funambolico Loureiro. Nascono così gli Shaman, il cui disco di esordio è il diretto e degno successore di HOLY LAND, dal quale riprende le orchestrazioni, gli stilemi progressive, gli inserimenti ritmici tribali, le aperture pianistiche, il folk indio, i cori, gli strumenti etnici (la cosa, peraltro, consente di fare supposizioni su quali possano essere stati i disaccordi causa della separazione in seno agli Angra). Il dittico iniziale Acient Winds-Here I Am è spettacolare e riporta direttamente all’abbrivio di HOLY LAND, visto il netto contrasto tra le atmosfere sognanti e orchestrali della prima e il travolgente riff di chitarra della seconda, che sfocia in un ritornello che è facile immaginare cantato in coro dalla folla in un concerto. Dopo un simile inizio il disco continua a soddisfare le elevate aspettative sciorinando una serie di canzoni di altissimo livello, tra cui spiccano For Tomorrow, ricca di rimandi al folk andino, e Fairy Tale, ballad sognante e romantica in cui la stupenda voce di Matos è supportata da un angelico coro femminile, su un accompagnamento di pianoforte, archi e flauto pregevolmente realizzato.




SHAMAN – REASON (Deckdisc, 2005) – Le interviste rilasciate da Matos all’indomani dell’uscita di RITUAL confermano che la sua visione artistica all’interno degli Angra avrebbe previsto una prosecuzione nel solco di HOLY LAND, cosa evidentemente non condivisa dal duo chitarristico Loureiro-Bittencourt. Il disco d’esordio degli Shaman è difatti la piena realizzazione di questo suo intendimento e più o meno altrettanto si può dire del secondo lavoro, RITUAL, uscito a tre anni di distanza (preceduto nel 2003 dal disco dal vivo RITUALIVE). Qualche variazione nello stile in effetti si riscontra, con la componente folk/tribale meno presente e alcuni brani in cui le partiture sinfoniche, appannaggio delle tastiere di Matos, sono meno incisive, ma in definitiva non si può parlare di netto cambio di rotta. Se l’aggressiva Turn Away è caratterizzata da un arrangiamento abbastanza scarno, la splendida ballad Innocence o la cangiante In The Night riportano il disco sulle giuste coordinate stilistiche. In ogni caso va sottolineato come nessuno dei brani spicchi in modo netto sugli altri: il livello qualitativo delle composizioni è medio-alto ma nulla di più e né la consueta ottima produzione, né le valide performance dei musicisti (netto il miglioramento tecnico del chitarrista Hugo Mariutti) riescono a far fare al disco un salto di qualità. Le vendite non esaltanti e la voglia di cambiamento spingono pertanto Matos a lasciare la band e darsi ad una carriera solista.




TIME TO BE FREE (Universal, 2007) – Arrivato a 36 anni Matos capisce, dalle esperienze musicali accumulate fino a quel momento, che il lavoro in seno a una band porta inevitabilmente a dover raggiungere una serie di compromessi, dato che non è facile avere una piena identità di vedute artistiche. La carriera solistica è pertanto l’unico modo per realizzare pienamente la propria visione musicale ed essere finalmente libero, intento che viene esplicitato a chiare lettere nel titolo del primo lavoro che Matos pubblica a suo nome reclutando una band di abili turnisti (tra cui i fratelli Mariutti). Il risultato è un disco veramente valido, forse più vicino ad ANGELS CRY che ad HOLY LAND, ma che contiene tutto quello che ci si potrebbe aspettare dal musicista brasiliano: aperture sinfoniche, intermezzi di pianoforte, richiami etnici, orchestrazioni classiche, ritmiche serrate, chitarre aggressive, linee vocali indovinate, eseguite con una voce che sembra non mostrare alcun cedimento nonostante il trascorrere del tempo. La qualità dei brani, dalla scatenata Letting Go fino alla conclusiva Endeavour è uniformemente elevata, ma una menzione particolare la merita A New Moonlight, ballad ricca di pathos che saccheggia con eleganza il Chiaro di Luna di Beethoven ricollegandosi idealmente a quanto fatto quasi vent’anni prima al tempo dei Viper.




MENTALIZE (Azul Music, 2009) – Confortato dal buon riscontro del suo primo album solista, Matos concede il bis a distanza di soli due anni avvalendosi degli stessi musicisti trasformatisi nel frattempo da manipolo di turnisti a vera e propria band di supporto fortemente affiatata. Il disco viene composto on the road durante il tour di presentazione del precedente lavoro, e viene registrato e mixato nell’arco di soli quattro mesi suonando tutto in presa diretta ed evitando rimaneggiamenti e correzioni in studio. Tale approccio preserva l’impatto e la spontaneità di un’esibizione dal vivo e rende i pezzi più immediati, sebbene non si possa certo parlare di semplificazione degli arrangiamenti. I brani sono infatti sempre articolati e talvolta magniloquenti grazie ai consueti accompagnamenti orchestrali e agli inserti di pianoforte, forse quello che viene semplificato sono le linee vocali che suonano meno ispirate del solito, a volte quasi scontate. Come nel lavoro precedente la qualità delle composizioni è abbastanza uniforme (seppure un gradino sotto al disco precedente) e risulta difficoltoso segnalare un brano sugli altri, anche se la power-ballad Back To You si candida seriamente per il gradino più alto del podio.



SYMFONIA – IN PARADISUM (Edel, 2011) – Dopo due album da solista Matos accetta di entrare a far parte dei Symfonia, nuovo progetto del virtuoso chitarrista finlandese Timo Tolkki, ex leader degli Stratovarius, reduce da un lungo periodo di inattività a causa di gravi problemi di salute mentale, depressione e alcolismo. La decisione di Matos di collaborare con un simile personaggio non sembra esattamente una scelta vincente, anche se va detto che il progetto sembra essere una sorta di super-gruppo che vede nelle sue fila membri di metal-band prestigiose quali Mikko Härkin (Sonata Artica), Uli Kush (Gamma Ray, Helloween), Jari Kainulainen (Stratovarius). Purtroppo in campo musicale non è detto che tra grossi nomi si instauri necessariamente la giusta alchimia creativa, tanto più che il processo compositivo di IN PARADISUM vede il solo Tolkki a realizzare le musiche e Matos ad occuparsi dei testi. Il risultato è un lavoro anonimo, ripetitivo e a tratti noioso, che si perde nel mare di produzioni power-metal non possedendo nessuna reale caratteristica artistica per farsi notare in maniera particolare. Le tracce, dall’opener Fields Of Avalon, che sembra un brano degli Stratovarius, nemmeno tra i più riusciti, alla conclusiva Don’t Let Me Go si susseguono stancamente, rivelando impietosamente che anche una voce straordinaria come quella di Matos prima o poi subisce un inevitabile calo dovuto a ragioni anagrafiche. Certo, vista la classe dei musicisti coinvolti, qualche spiraglio di luce si intravede, ad esempio tra gli spartiti della graziosa ballad Alayna o dell’orientaleggiante Pilgrim’s Road, ma è davvero troppo poca cosa per meritare di entrare a pieno titolo nel curriculum vitae di Matos, tanto più che la band si dissolve immediatamente dopo l’uscita del disco.



THE TURN OF THE LIGHT (Azul Music, 2012) – Dopo il flop dell’esperienza con i Symfonia, Matos torna a produrre un nuovo disco solista con il supporto solamente di metà dei suoi soliti musicisti: ai chitarristi Hugo Mariutti e Andre Hernandes si affiancano il bassista Bruno Ladislau e il batterista Rodrigo Silveira a sostituire rispettivamente Luis Mariutti e Eloy Casagrande, mentre il tastierista Fabio Ribeiro non viene rimpiazzato. Se il precedente MENTALIZE segnava una leggera flessione qualitativa rispetto al validissimo primo lavoro solistico, in questa terza prova il trend decrescente non fa che confermarsi. Il picco del disco è rappresentato da alcune buone tracce di power metal melodico (la title track, Course Of Life, Light-Years) che tuttavia non mostrano alcun colpo di genio né per quanto riguarda l’arrangiamento, visto che le orchestrazioni sono ai minimi sindacali, né per quanto riguarda le melodie vocali, ancora una volta lineari e poco ispirate. Il punto più basso del disco, al contrario, è rappresentato da ciò che nelle passate produzioni era spesso un fiore all’occhiello di Matos, vale a dire le ballad, i pezzi lenti, acustici e pieni di pathos. Gaza e Sometimes sono forse la spia di una preoccupante crisi compositiva risultando sciatte e banali sotto tutti i punti di vista. Tra questi due estremi si posiziona il resto della track list, con brani onesti e ben realizzati ma di certo non destinati a segnare la storia del metal. Purtroppo THE TURN OF THE LIGHT rimane l’ultimo lavoro nella discografia di Matos, dato che il musicista brasiliano di spegne l’8 giugno del 2019 a soli 47 anni a causa di un attacco cardiaco.

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