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Pubblicato il Agosto 22nd, 2016 | by Paolo Carnelli

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Bill Bruford – The Autobiography (2010)


Casa editrice Jawbone Press/Libro

Pagine 352

Poco amato da alcuni illustri colleghi, spesso pronti a ironizzare sul suo modo estremamente razionale e matematico di organizzare le partiture, sempre alla ricerca della soluzione più complessa e inusuale, Bruford è allo stesso tempo il batterista prog più ammirato dagli appassionati, forse perché resta l’unico musicista ad aver militato in ben tre delle formazioni che hanno fatto la storia del genere: Yes, King Crimson e, anche se solo per una tournée, Genesis. Tutto questo avveniva all’inizio dei gloriosi anni settanta, perché già nella seconda parte della decade l’attenzione di Bruford si era invece rivolta verso l’altro emisfero boreale, quello del jazz, come dimostrano progetti come gli U.K. e i peraltro splendidi tre album solisti pubblicati tra il 1977 e il 1980, proseguendo poi con l’affascinante e rivoluzionaria avventura degli Earthworks. «Troppo rock per suonare jazz, troppo jazz per suonare rock», è lo stesso batterista nelle pagine del libro a fare sua questa definizione appiccicatagli da qualche critico musicale, e che realmente gli calza a pennello, se è vero che la biografia di Bruford appare un po’ come la cronaca di una (tentata) scalata, che dalle paludi del rock lo ha visto assurgere lentamente all’olimpo del jazz. Tentata, perché nonostante la malcelata acredine che traspare nei suoi scritti verso tutto ciò che è rock, Bill non è mai realmente riuscito a riqualificarsi al di fuori di un ambito a cui, inevitabilmente, deve la sua notorietà. Resterà sempre «Il padrino della batteria prog», ed è forse per questa sottile frustrazione, che Bruford in questa sua autobiografia di prog ne parla ben poco: solo due paginette dedicate agli U.K., poche di più ai King Crimson, un pugno di fogli sugli Yes. Il tutto “annegato” in un mare magnum di filosofia, di massime, di verità esistenziali, di amare considerazioni, che portano dritte all’idea che essere un musicista jazz è il massimo a cui si possa aspirare (e a cui tutti i musicisti che si rispettino dovrebbero aspirare), anche se muoversi nella scena jazz è tanto più faticoso e soprattutto meno remunerativo rispetto alla scena rock. Ben vengano allora “marchette” come il tour di Union con gli Yes, o gli stessi concerti con i Genesis nel 1976, se possono servire a finanziare altri progetti: ma da parte di Bill l’entusiasmo verso certi lidi musicali è ormai morto e sepolto da anni. Così come morto e sepolto è il rapporto con Robert Fripp, oggetto costante lungo tutto il libro degli attacchi ironici del batterista, in cui viene tirato in mezzo anche il povero Adrian Belew, accusato di essere troppo timido di fronte alle paranoie del “leader maximo”. Non mancano alcuni aneddoti davvero gustosi, come la surreale seduta di registrazione per Al Di Meola insieme a Tony Levin, e in apertura di volume troviamo anche un buon compendio di foto a colori che spaziano lungo tutta la carriera di Bruford… ma forse da un musicista con un tale curriculum era lecito attendersi qualcosa in più. Il volume è disponibile anche in versione italiana grazie alla recente ristampa a cura di Aerostella.

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