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Pubblicato il Gennaio 12th, 2017 | by Paolo Carnelli

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Gianluca Cangemi (Almendra Music)

Nato nel 1979, Gianluca Cangemi è una figura poliedrica della musica contemporanea nazionale. Compositore, produttore, arrangiatore, teorico e sognatore, vive tra la sua Palermo e Berlino, nel 2012 è tra i fondatori della factory palermitana Almendra Music, in cui opera sia come musicista che come produttore fonografico e A&R. More info: www.facebook.com/GCangemiMusic (foto Francesca Cicala)

JOHN RENBOURN – Live in Italy (1998)
È l’album con cui feci la conoscenza di quel raro gentiluomo ch’è stato John Renbourn. Vengo dalla Sicilia: il mio aspetto è Normanno, il mio cognome è Arabo, della mia lingua madre (sia quella musicale che quella con le parole) mi è impossibile scrivere in breve perché è equilibrio tra troppe cose. Date queste premesse, ebbi subito l’impressione che nelle risonanze della chitarra di Renbourn potessi dialogare coi miei antenati del Grande Nord, congiungendo, nell’istante dell’ascolto, passato e futuro, colto e popolare, traccia scritta e improvvisazione, arte e artigianato. Sorrisi quando, nel 2011, il gentiluomo inglese pubblicò un album (splendido!) con un titolo che a me parve perfino una risposta ai dialoghi tra dentro e fuori di me: Palermo Snow.

AA.VV. – Fantasia, Colonna Sonora Originale (produzione: 1940 / prima pubblicazione in LP: 1957)
Senza la visionaria produzione fonografica di questo album non avremmo la stereofonia come la conosciamo oggi, non avremmo la registrazione, il missaggio e la riproduzione multitraccia come li conosciamo oggi, e il suono del cinema (e a seguire dei videogiochi, della VR…) non sarebbe quello che è oggi. Altrimenti detto, senza la produzione fonografica delle musiche in Fantasia la nostra immagine ed esperienza del mondo non sarebbe la stessa. Questi sono gli aspetti più noti, e giustamente celebrati, di questo lavoro, ma ci sono anche altri lati da cui poterlo osservare. Per esempio, è la prima opera fonografica – con adeguate finanze, per una fruizione ampia – in cui il musicista si serve consapevolmente della fonografia (registrazione, editing, missaggio, riproduzione) come ulteriore strumento per interpretare la musica, con conoscenza e attenta riflessione di e sul testo musicale di base, ma con orecchio e cuore anche alla fruizione finale e non solo ai propri fantasmi o ai propri maestri-giudici. Possibilità considerata all’epoca – e da alcuni ancora oggi – scandalosa e quindi subito declassata come “ricerca dell’effetto usando i gingilli moderni”. Per fortuna però oggi una buona parte dei musicisti e produttori vive con naturalezza le possibilità che in Fantasia fecero il loro spettacolare ingresso nella storia delle nostre tradizioni musicali. È uno dei primi album che acquistai, da ragazzino. Avrei potuto continuare a vedere il VHS del film, ma c’era, in quelle musiche, prodotte in quel modo, qualcosa che mi attraeva più delle immagini sullo schermo: qualcosa cui poi, studiando per fare il compositore e il produttore fonografico, avrei saputo dare i propri nomi.

NIRVANA – MTV Unplugged in New York (1994)
Lo acquistai e ascoltai per la prima volta tre anni dopo la sua uscita: quando c’è troppo rumore attorno a qualcosa preferisco attendere che ci sia calma, perché, al contrario di quanto alcuni per loro convenienza ci vogliono far credere, un’opera d’arte non scappa, e se è valida, lo è anche dopo i primi tre mesi dalla sua data di uscita. Non è (solo) per gli ovvi motivi generazionali che segnalo questo album (né è perché il suo acquisto, in realtà, fu causato dall’incontro con una donna). Mi ha infatti sempre commosso la consapevolezza di Cobain nell’individuare (o realizzare?) il punto di congiunzione tra il pop di David Bowie, il blues rurale di Lead Belly, l’alt-rock dei Vaselines, il dilatato folk urbano psych-punk dei Meat Puppets, e la sua stessa musica. Una sorta di “enciclopedia intima” esposta al grande pubblico: la prova che quel collega, morto presto e male, non era grande artista perché autodistruttivo, lo era invece per le radici, la storia, le storie, declinate con consapevolezza al presente futuro. Nonostante lo star system e lo star male.

FRANK ZAPPA – The Mistery Disc (1998)
Preceduto da The Lost Episodes (1996), e pubblicato postumo, scelgo questo album dal centinaio abbondante di cui (finora…) consta il repertorio fonografico di questo grande musicista-produttore-intellettuale della seconda metà del secolo scorso. È una raccolta di frammenti, studi compositivi e produttivi, il cui sguardo d’insieme restituisce un paesaggio-ritratto, esaustivo sia dello “artist as a young man” che di tutte le tensioni estetiche che a un certo punto si possono concentrare in un figlio dell’emigrazione nella provincia di un Impero, mentre tutti intorno fanno rumore.

ALAN LOMAX e DIEGO CARPITELLA – Italian Treasury: Sicily, registrazioni sul campo (registrazione: 1954 – pubblicazione: 2000)
Se fossi costretto a portare con me solo uno dei dieci album, sarebbe questo. Perché se dal mondo dovessero sparire d’un colpo tutte le tradizioni e i supporti delle musiche d’arte – culta, popular, classica, antica, moderna, prog o regr o fatevoi – potremmo ripartire serenamente da qui. Inoltre tra questi miei dieci album non ce n’è uno che venga da Sud o Est, rispetto al mio luogo d’origine: non c’è l’Africa, il Sudamerica, l’Asia. Però un rapporto molto forte con le musiche da Est e Sud ce l’ho. Quindi sull’isola deserta intanto porto questa mia personale chiave a queste altre musiche, e conto che anche in quell’isola i venti da Sud e da Est rechino, come fossero vele o aquiloni, le porte e i cancelli da aprire.

BRITTEN AND ROSTROPOVICH – Aldeburgh Festival 1964 (CD 1 – registrazioni: 1964, 1965, 1967, 1968 – mastering e pubblicazione: 2000)
Mstistlav Rostropovich, violoncellista. Galina Vishnevskaya, soprano. Benjamin Britten, pianista. Emanuel Hurwitz, violinista. Altrimenti detto: la leggenda del violoncello (anche consapevole di esserlo, al limite di una Pop Persona), una delle voci in virtù delle quali esistono oggi magnifici capolavori (musicali e/o fonografici) del secolo scorso, uno dei giganti della composizione del XX secolo, e uno dei cameristi e orchestrali più fighi che abbiano vissuto su questo pianeta nel ‘900. Ma la stessa cosa si può pure scrivere così: marito e moglie (Rostropovich e la Vishnevskaya), grande amico della coppia (Britten), affettivo collega a vario titolo compatriota degli altri tre (Hurwitz, britannico di genitori russo-ebrei), e assieme suonano musiche di altro grande comune amico (Dmitri Shostakovich) e del maestro di uno di loro (Frank Bridge, mentore di Britten). O ancora si può dire: la Guerra Fredda e le sue politiche culturali composte, scomposte, ricomposte, ignorate, e col senno del poi perfino vinte nel far musica insieme. Su un piano più personale (ma personale: politico, etico, estetico…), tra le musiche di questo album c’è anche una delle “mie musiche altrui”, quella Pohádka (in ceco: Un racconto) di Leoš Janáček, la cui immagine sonora in movimento è parte di me al punto che, mentre scrivevo la mia Sonata Cangiante, accadde che dalla punta della matita si è infilata tra i miei pentagrammi, come, guardacaso, con forse altro ancora, la Sonata op.40 di Shostakovich, presente in questo stesso album… E, ci faccio caso solo ora, una certa “pastoralità Brit”, dalla composizione di Bridge, finì pure per trasformarsi (cangiare?) in qualcos’altro nel mio pezzo… Taluni retropostmoderni, a volte con un certo compiacimento sapienziale, le chiamano “citazioni”, e così chiudono la partita. Non ci cascate mai, e non siate soddisfatti di un vostro “sapere”: interrogate la vostra sensibilità, per sentire se si tratta davvero di lucide e razionali citazioni, o se per caso non si tratti d’altro. Cercate, sentite, vivete!

AA.VV. – 41 Original Hits from the Soundtrack of American Graffiti, Colonna Sonora Originale (1973)
Perché ci fu un tempo in cui il Pop era ancora un vitale ragazzino borghese, che sfuggiva dalle grinfie della governante per giocare in oratorio coi monelli di strada, sotto lo sguardo burbero di anziani figli di schiavi e d’emigrati, pur dipendente ancora dalla paghetta di papà: lo chiamavano Doo Wop e Rock’n’Roll.

MEMBERS OF THE PENGUIN CAFE’ ORCHESTRA – Music from the Penguin Café (1976)
Incontrai la Penguin Café Orchestra con Union Café (1993), nell’anno in cui uscì. Comprai quell’album senza avere idea di che musica si trattasse, solo perché m’attrasse la sua copertina: in una stanza color terra una scimmia-pinguino e umani-pinguino suonano e danzano, agitando pesci e sonagli, mentre un pinguino-pinguino fa capolino da una porta, aperta su un paesaggio che ricorda vagamente Hieronymus Bosch, le vedute nei ritratti del Rinascimento italiano, o certa pittura post-coloniale in Centro o Sud America. Così, per caso o intuizione (e bravura di una produzione che sa realizzare la giusta copertina), ho potuto dare finalmente un nome a un luogo di cui, anche prima di quell’acquisto, sono sempre stato avventore abituale: il Penguin Café, che poi altro non è che un Mocambo senza parole, sognato da un uomo del Nord mentre prende il sole su una riviera del Sud. Segnalo qui però non Union Café ma il primo album della PCO, per diverse ragioni. Anzitutto mi piacciono i debutti, gli esordi, le potenzialità, insomma le nascite. Eppoi questo primo album fu prodotto da un altro grande musicista-produttore-intellettuale, alle cui proposte (non necessariamente ai loro esiti o premesse) sono affezionato: Brian Eno. Se a questo aggiungiamo che il debutto live della PCO, nello stesso anno di quest’album, fu come band d’apertura ai Kraftwerk, allora davvero qualcosa comincia a oscillare, irrazionale e ben composto a un tempo, ondeggiando verso l’oggi tra storia e storie, personali e della musica.

THE BEATLES – Rubber Soul (1965)
Dev’esserci qualche bizzarro Cupido della musicologia Pop che, quando ero ragazzino, mi seguiva nelle discherie: questo album, non altri, è infatti il primo che acquistai dei Fab4+1, quello con cui li conobbi. Non sapevo allora di avere scelto il nodo centrale della discografia del progetto Pop senza il quale è impensabile, nel bene e nel male, tutto quanto sarebbe accaduto a seguire: The Beatles. Il Rock’n’Roll iniziale di una boy band di Liverpool diventa qui adulto, in equilibrio virtuosamente precario tra ingenuità giovanili e maturità Pop. Condotto dietro le quinte da un George Martin discretissimo e perciò efficace, Rubber Soul assume e sussume ogni influenza, passata e in atto, dei quattro ragazzi, dal folk al nascente rock alla canzone borghese inglese degli anni ’40, tra sentori psichedelici, tentazioni prog, songwriting consapevole di se stesso, uso dello studio di registrazione come strumento della composizione Pop. Così Rubber Soul ci rende pronti a (quasi) tutto quel che sarebbe accaduto da lì a seguire. In questa lista d’album avrei potuto inserirne a decine, d’ogni sorta, però una volta lessi, non ricordo dove, che gli eserciti tengono sempre in funzione e attività, a ogni avanzamento tecnologico, mezzi e infrastrutture delle tecnologie precedenti, nell’eventualità che le nuove dovessero rivelarsi inaffidabili al momento del bisogno: mi parve, all’ovvio netto della guerra, un saggio consiglio.

PAOLO CONTE – 900 (1992)
Siamo al decimo album da portare sull’isola. Mi accorgo solo adesso che l’Italia e tante sue tradizioni musicali, cui pure sono legato bene e volentieri, sono presenti in queste scelte, ma in controluce, senza un solo singolo album che le rappresenti esplicitamente. Inoltre ci sono altri grandi (apparenti) assenti: le musiche afro-americane, quelle sudamericane, o i vari esiti della canzone che trasformarono il XIX secolo in quello finito or sono diciassette anni. Ancora, a proposito di secolo scorso: mi accorgo adesso che quanto finora segnalato è stato tutto realizzato, appunto, nel ‘900. E allora, già mezzo ubriaco all’uscita dal Penguin Café, vado a finire d’ubriacarmi al Mocambo, ché col suo proprietario ce la intendiamo, e così, sbariando tra Harlem, Chicago, Genova, Weimar e Paris, possiamo infine salutare degnamente questo vecchio secolo ventesimo, certi che Gong-Oh saprà condurci gongolante anche nel secolo nuovo. Perché ok, mio ipocrita uditor, mio simile, mio amico, “ci manca il pubblico, va bene, ma io e te siam due grandi artisti e insieme diam spettacolo”! Del resto: “per quel che vale, è un fatto mio, e chiudo gli occhi all’oblio…”.

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