Incontri

Pubblicato il Settembre 15th, 2016 | by Paolo Carnelli

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GIANNI LEONE: nel regno di Ego

Nonostante a Gianni Leone – tastierista, cantante e compositore conosciuto soprattutto per quel capolavoro dark prog che è Ys del Balletto di Bronzo – mi leghi da tanti anni una bella e sincera amicizia, in tutto questo tempo non avevo mai provato a realizzare con lui una vera e propria intervista. Forse perché avevo già avuto la fortuna di sapere da lui tante cose senza dover nemmeno fare lo sforzo di chiedere, o forse perché immaginavo che avrei dovuto faticare non poco per riuscire ad avere tutte le risposte necessarie per completarla. Ma del resto la forza di Gianni, la sua energia dirompente, è senza dubbio il frutto di uno spirito che lascia spesso prevalere l’istinto e la spontaneità sulla convenzionalità dei comportamenti stereotipati o regolati dallo scorrere del tempo. Oggi però, con il ritorno del Balletto di Bronzo alle porte, il prossimo 19 dicembre a Roma, le risposte a quelle domande che avevo pensato qualche mese fa sono divenute nuovamente impellenti… se non altro per ingannare l’attesa e ricominciare a riassaporare l’emozione di vedere nuovamente Gianni Leone manipolare sul palco la sua creatura preferita.

Gianni, ancora oggi l’ascolto di Ys non sembra fornire alcun punto di riferimento, come invece accade con tutti gli altri, pur pregevoli, album che hanno caratterizzato la grande stagione del pop italiano degli anni ’70. Sei d’accordo con chi dice che per trovare un qualche aggancio bisogna cercare nella musica colta contemporanea, ad esempio in Bartok o Stravinskij?

Mah, non saprei… Ricordo, però, che all’epoca comperai (ma non riuscii mai a leggerli!) dei pallosissimi e pesantissimi tomi di Arnold Schoenberg sull’armonia e sul contrappunto…

Ys fu registrato a Milano negli studi della Polygram: è vero che visto l’esiguo numero di piste a disposizione foste costretti a incidere i brani praticamente “live”, suonando tutti insieme dal vivo?

Sì, certo: le basi furono registrate tutte in diretta. Io poi sovraincisi le altre tastiere e le voci. Spesso dovemmo ricorrere al “trucchetto” dei premissaggi di più strumenti e voci su una sola pista, visto che il registratore ne aveva solo otto. Proprio in quei giorni, e nello stesso studio, Le Orme stavano registrando l’album “Uomo di pezza”

Sei stato uno dei primi a suonare l’organo Hammond a Napoli alla fine degli anni sessanta: come è avvenuto il tuo incontro con questo strumento e cosa ti ha affascinato al punto di farlo diventare lo strumento che ti ha accompagnato per tutta la tua carriera?

Da bambino, prima di osare ambire all’organo Hammond – sogno irraggiungibile – impazzivo per il Farfisa Compact de Luxe, che era lo strumento portante, il SUONO dell’era beat. Nel ’69 mi fu regalato un Farfisa fast-5, organo che poi (s)vendetti scioccamente e che oggi vorrei tanto riavere. Nel ’70 mi fu regalato l’Hammond, che possiedo ancora. Sì, fui uno dei primi a Napoli a possederlo. All’epoca aveva un costo proibitivo: quasi due milioni di lire per il modello “L222” e quasi quattro per i leggendari “B3” e “C3”! Il suono dell’organo Hammond, per me, è in assoluto uno dei suoni più belli che l’orecchio umano possa udire. Anni fa acquistai uno splendido Farfisa Compact de Luxe del ’68 perfettamente funzionante, che ho adoperato anche ai concerti del Balletto fino a qualche tempo fa

Nel 1972 il Balletto di Bronzo fu protagonista di molte esibizioni lungo la penisola, in particolare nell’ambito di celebri rassegne come Controcanzonissima al Piper di Roma o il Davoli Pop a Reggio Emilia, ma purtroppo di tutto questo pare non essere rimasta traccia… quale repertorio eseguivate dal vivo e di quale strumentazione ti servivi nei concerti per ricreare le sonorità di Ys?

Sebbene io sia stato fra i primissimi tastieristi in Italia ad adoperare in studio il Minimoog e il Mellotron, non li acquistai. Dal vivo adoperavo semplicemente l’Hammond, un organo Eko Minstrel modificato da Lino Ajello e un Binson Echorec. Negli ultimi tempi aggiunsi un Clavinet D-6 Hohner. That’s it. Lino usava delle pedaliere che comadavano effetti da lui stesso creati. Eseguivamo tutto Ys, naturalmente, ma in versione… ”dilatata”. Per esempio, la parte centrale di Terzo incontro – quella col riff ossessivo, ipnotico e molto dark – durava un’eternità, ma nessuno si lamentava, tanto eravamo tutti sballati, sia noi che il pubblico. Ricordo, per esempio durante le nostre esibizioni al leggendario”Carta Vetrata” di Bollate Milanese, coltri di denso fumo molto “aromatico” che ci avvolgevano dall’inizio alla fine del concerto… Poi talvolta io restavo da solo sul palco per un lungo e delirante assolo di organo, cosa moooooooolto anni 70!… Altri tempi.

Che ricordi hai della tua partecipazione nel 1972 alle session di I mali del secolo di Adriano Celentano e di La stagione per morire di Mauro Pelosi?

Celentano era divertentissimo e offriva gags a ripetizione. Anche per quelle session – come per YS – fra le ragazze del coro c’era Giuni Russo, che allora si faceva chiamare Giusy Romeo. Spesso cantavamo affiancati allo stesso microfono. La ricordo molto timida e riservata. Mauro Pelosi era un ragazzo introverso e timidissimo fino all’inverosimile. Io e il batterista Gianchi Stinga, durante le registrazioni, cominciammo a prenderlo in giro spietatamente, poverino… Che insensibili! Rincontrai per caso Pelosi in casa di amici comuni qui a Roma una ventina di anni fa



 

Per molti artisti provenienti dagli anni settanta, il passaggio al supporto digitale si è rivelato particolarmente traumatico: Justin Hayward dei Moody Blues ad esempio cercò invano di convincere la casa discografica a inserire il CD all’interno della vecchia e spaziosa confezione del vinile perché non sopportava l’idea di un packaging così ridotto. Tu come hai vissuto questa fase dell’evoluzione del mercato discografico?

Che tristezza, quegli striminziti e squallidi contenitori in plastica dei cd! Vorrei fare del male fisico all’inventore di quelle quattro “orecchiette” che trattengono il libretto! Ho ancora una folta collezione di vinili “d’epoca” e ne sono fiero. Sulle copertine degli LP, noi, sognavamo!

Ti piaceva il formato 45 giri o secondo il tuo modo di concepire la musica era già superato all’inizio degli anni ’70?

Non mi sono mai posto il problema. Il Balletto a tutto ambiva fuorché a produrre dischi “commerciali”, e il formato 45 giri era indubbiamente più vendibile di un LP. Negli anni 60 compravo i 45 giri dei Rokes, dei Sorrows e dei primi gruppi beat, che ancora possiedo

Per registrare i tuoi due album solisti, Vero e Monitor, negli anni settanta hai fatto un vero e proprio “coast to coast” da New York a Los Angeles… a quale delle due città sei rimasto più affezionato?

Mi sono entrambe rimaste nel corpo e nella mente, seppure per ragioni diverse. Inizialmente rimasi folgorato da New York, questo “mostro” tentacolare che può prenderti e proiettarti alle stelle oppure farti sprofondare negli abissi più torbidi. Io sperimentai entrambe le…opzioni. Poi, quando mi strasferii a Los Angeles (a Hollywood, per l’esattezza), scoprii una nuova dimensione: la luce del sole, le palme, il positive thinking, il salutismo sfrenato (infatti, da allora sono vegetariano)… Posso affermare che proprio a Hollywood ho vissuto alcuni dei momenti più belli e felici della mia vita. Poteva capitare che, durante i missaggi di Monitor ai Cherokee studios, Rod Stewart mi facesse l’occhiolino al bar per cercare di rimorchiarmi, o che mi ritrovassi a fare la pratica buddista (il chanting) nella villa di Herbie Hancock insieme a lui, o che Marlene Stewart (futura stilista di Madonna, i DEVO, Cher…) insistesse per farmi indossare i suoi costumi, o che presenziassi alla cerimonia dei Grammy Awards (gli Oscar della musica) vedendo gli artisti più eccelsi esibirsi dal vivo sul palco, ritrovandomi poi seduto allo stesso tavolo accanto a loro nel corso del party a fine serata… Tengo a precisare che, dopo circa un annetto o poco più di “esplorazione” della pratica del Buddismo, lasciai perdere, poiché non mi piace legarmi ad alcuna ideologia, religione o altro

La cura dell’abbigliamento sul palco ha sempre rappresentato per te un punto di importanza fondamentale: quali sono gli artisti che nel corso degli anni hai apprezzato di più per il loro look e che ti hanno in qualche modo ispirato?

Ho sempre sentito dentro di me, fin da quando ho memoria, una irrefrenabile propensione ad andare controcorrente. Ricordo di aver sempre avuto una predilezione assoluta per l’eccentricità e la provocazione in tutte le sue forme, spesso esagerando anche. Potrei raccontare aneddoti incredibili… Era ed è semplicemente la mia natura, non posso farci niente. Reputo inaccettabile, offensivo e ripugnante andare sul palco vestiti come se si fosse in sala prove o… all’osteria! Per un artista è assolutamente sano e normale, ovvio direi, considerare la sua faccia e il suo corpo come fossero delle tele da dipingere, dell’argilla da modellare. Ciò stimola la creatività e procura un piacere assoluto. Odio la casualità, la “quotidianità”, la sciatteria! Il semplice atto di salire su un palco proietta automaticamente in un’altra dimensione: la dimensione del Sogno, dell’Arte. Moltissimi non lo capiscono e si ostinano a imporre il look stracciarolo da metropolitana alle 8 del mattino. E allora io, quando vado in scena, è come se ci andassi da solo, gli altri nemmeno li guardo. Ma questo è terribile per me perché vorrei, pur essendo io un campione mondiale di egocentrismo (non a caso, negli anni 70, prima di adottare lo pseudonimo “LeoNero”, per po’ pensai di farmi chiamare “EGO” -questa la dice lunga), che invece emergesse l’immagine del GRUPPO e non del singolo!  Ricordo che rimasi letteralmente folgorato quando da bimbo vidi le prime foto di Jimi Hendrix, dei Rolling Stones, di David Bowie…Però voglio precisare che, quando mi capitò di leggere su un numero di Ciao 2001 nel ’72 il primo articolo con foto proprio su Bowie – che stava emergendo in Inghilterra ed era totalmente sconosciuto in Italia -, io ero già…come appaio nel retro copertina di YS: capelli lunghissimi e biondissimi, abiti glamour, bigiotteria a quintali, immagine molto efebica. E ti credo: all’epoca non avevo neanche ancora la barba!

Quali sono le ultime notizie sugli altri componenti storici del Balletto di Bronzo?

Vito Manzari vive fuori Roma, in un piccolo centro, e fa l’artigiano; Gianchi Stinga, “il batterista della mia vita” (con lui avevo un’affinità batteristica che non ho più ritrovato), dopo decenni trascorsi a Stoccolma, da un po’ di tempo si sposta fra Malesia, Svezia e…costiera amalfitana; Mike Cupaiuolo è sempre stato a Stoccolma fin dal’72 e non suona più; Marco Cecioni fa il pittore/scultore e vive fra la Svezia, la Finlandia, Ibiza e…Pozzuoli; Lino Ajello, dopo decenni in Svezia e anni a Tenerife, è tornato in Italia, a Pozzuoli, e sta mettendo su insieme con Marco un gruppo pop-rock (che non avrà nulla a che vedere con i “2 balletti”, quello di YS e quello di Sirio 2222) dal nome, per ora, misteriosissimo…

Senza nulla togliere a Ivano Salvatori e Dario Esposito, rispettivamente bassista e batterista dell’attuale formazione del Balletto di Bronzo, il tuo Balletto dei sogni è composto da Gianni Leone e…

Il giorno in cui uno scienziato (pazzo? non è detto) riuscirà a clonare da me un Gianni Leone bassista e un Gianni Leone batterista, potrò finalmente raggiungere la totale FELICITA’, quella felicità che ho inseguito incessantemente per tutta la vita. Il mio sogno è quello di potersi capire al volo senza parlare, discutere, litigare…Essere in totale sintonia, vibrare all’unisono, avere lo stesso approccio grintoso con la musica, lo stesso tipo di sensibilità. Quanto tempo e quante arrabbiature risparmiate! Questo, senza nulla togliere a tutti i musicisti bravissimi con i quali ho suonato finora e nemmeno a quelli – sempre bravissimi, ovviamente! – coi quali suonerò in futuro, perché si cresce e si migliora soprattutto confrontandosi con gli altri, rimanendo però sempre se stessi.  Parola di…EGO

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