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Pubblicato il Dicembre 22nd, 2021 | by DDG

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I HAVE THE TOUCH (Peter Gabriel, 1982)

Parla di contatto fisico. Avevo letto di quanto sia importante il tatto, il cervello dei neonati per esempio si sviluppa secondo la quantità di contatti fisici che questi ricevono… eppure, la pelle è un organo che viene spesso sottovalutato. Peter Gabriel sintetizza così l’idea dietro il singolo I have the touch, una canzone che nelle parole del suo autore vuole evocare diversi approcci al concetto di “contatto”. Uno degli apici del suo capolavoro IV (1982), disco fondamentale nel percorso dell’artista e in quello della musica rock degli anni ’80: una avveniristica fusione di sperimentazione aliena e melodie memorabili, suoni progressivi e forma canzone, che indicava le coordinate che avrebbero definito tanto pop alternativo a venire.

In questo brano, più che in altri della clamorosa scaletta del LP, emergono inquietudini e percezioni personali, come la paura della distanza, dell’isolamento già messi in versi in un’altra vita, quando la vecchia Tessa gridava I don’t belong here!
Aspetto l’accensione, cerco una scintilla, una minima possibilità di collisione, per illuminarmi nel buio… Ma mentre Gabriel si tuffa nella folla alla ricerca di vicinanze, tutto suona frenato e faticoso come la batteria compressa di Jerry Marotta e i loop di Fairlight di Larry Fast, o lontano come le frasi di chitarra di David Rhodes: solo lo stick di Tony Levin sembra sostenere la corsa verso gli altri del protagonista, fornendo un supporto comprensibile verso quel flusso da cui si desidera solo una reazione fisica – io voglio un contatto con te!

Molto del linguaggio e delle sensazioni che oggi ci sembrano normali, all’epoca suonarono assolutamente anomale: I have the touch sembrava il racconto di una follia estranea, di un’alienazione patologica. Oggi, invece, ne possiamo leggere la profondità universale, anche alla luce (o nel buio) degli isolamenti che nel frattempo abbiamo dovuto sperimentare, e delle incomunicabilità con cui ci siamo dovuti confrontare. Pizzicami il mento, accarezzami i capelli, grattami il naso, abbracciami le ginocchiaStringi quelle mani, dammi le cose che capisco!

Anni prima che gli scambi di sorrisi e abbracci fossero ridotti a pixel su uno schermo, o che dovessimo ripeterci andrà tutto bene per sopravvivere nel chiuso delle nostre stanze, Peter Gabriel già percepiva la naturalezza istintiva di questa necessità di fuga verso il prossimo: un’eco dal subconscio del bisogno naturale di risonanza fisica con gli altri, in qualsiasi modo e chiunque essi siano, sconosciuti nella folla o voci confuse da balconi remoti. Provo a bere, mangiare, fumare, la tensione non si allenta… Schiocco le dita, intreccio le braccia, inspiro profondamente, incrocio le gambe, alzo le spalle, stiro la schiena… ma niente sembra darmi piacere. E le cose che capisco di cui grida il protagonista sembrano quelle alla base stessa del nostro senso di comunità: sentirsi abbracciati, fare parte di un cerchio materiale, essere popolo.

Oggi la profondità dell’intuizione di Gabriel è diventata visibile, e la sostanza del disagio raccontato da I have the touch sembra prefigurare quello descritto in opere ben più recenti: e sorprende scoprire ancora una volta quanto IV fosse decenni avanti, non solo nei suoni e nelle partiture, ma anche nella descrizione di mondi e segni che allora risultavano inimmaginabili ai più.




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