Audio

Pubblicato il Ottobre 28th, 2021 | by Antonio De Sarno

0

Massimo Giuntoli – F.I.T. Found in Translation (2021)

Tracklist
1. Nehigon Lohl
2. Dan Rhanda Way
3. Tabawa Gawama
4. Tamaji Gol
5. Shayn Bayn
6. Wral Ni Mor
7. Si Landari Barigodà

Etichetta Molkaya Records/CD

Durata 59’28”

Personell
Massimo Giuntoli (keyboards, harmonium, potlid, voice)

Vivendo l’epoca del tutto subito, l’oggetto in questione potrebbe a un primo giro risultare troppo esoterico per l’ascoltatore casuale; intendiamoci, non è un disco di semplice decifrazione, nonostante il titolo vorrebbe alludere al contrario.

Intanto, chi conosce le opere precedenti di Massimo Giuntoli, sa già che non potrà aspettarsi nulla di semplice o senza un minimo di concettualità dietro. F.I.T. è un’opera mai scontata in cui l’ascoltatore sentirà una miriade di assonanze con il mondo del prog più sperimentale e a volte penserà di aver sentito qualche parola, o frammento di discorso, in cui significato e significante si congiungono.

Illusione. Dietro il gioco della fantomatica lingua (e annessa cultura) Molkayana, il buon Giuntoli si diverte a scherzare con le convenzioni e crea dei cortocircuiti nell’ascoltatore, che cerca disperatamente di attribuire un senso a quelle parole che, ovviamente, un senso non hanno. Così, alla fine si diventa complici e si finisce per crearsi delle storie per circoscrivere le vicende (narrate con fonemi inglesi) infrangendo quella barriera che di solito separa l’artista dal suo pubblico. Si cerca, fondamentalmente, una narrazione laddove non potrà esserci. Quest’opera, per puro paradosso, è al contempo anche l’opera più accessibile di Giuntoli ad oggi, bypassando la logica che vorrebbe la voce come portatore di messaggi unidirezionali e lasciandola agire solo come strumento che evoca tutte le possibili emozioni in un disco che rimarrà per sempre un misterioso e inarrivabile rompicapo.

Rispetto alle atmosfere degli Hobo o Piano Warps, due dischi totalmente strumentali, ci ritroviamo in uno strano mondo sonoro in cui basterebbe anche un titolo per poter decifrare il tutto. Eppure la voce, che tanto evoca quella di Robert Wyatt senza ricalcarne necessariamente il timbro, ci accompagna per tutta la durata del disco e sembra volerci svelare chissà quale segreto (insieme al tessuto musicale che sembra quello di un Philip Glass schizofrenico rinato a Canterbury), tenendoci sempre con l’orecchio teso a ogni variazione e senza mai ricorrere a una sezione ritmica “classica”.

Un disco assolutamente unico.

Tags: , , , ,


Articolo a cura di



Lascia un commento