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Pubblicato il Maggio 24th, 2022 | by Paolo Formichetti

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Matthew Parmenter: tra folk e prog

Mattew Parmenter non ha certo bisogno di presentazioni: cantante e polistrumentista, è il leader dei Discipline, per i quali è autore unico di musiche e testi, ed ha prodotto tre album solisti di rara intensità emotiva. Da qualche tempo a questa parte, l’artista di Detroit sta prestando le sue doti di violinista al trio capitanato dalla cantante Kate Hinote, con il quale ha registrato un disco e si sta esibendo con regolarità in concerti acustici. Lo abbiamo intervistato per avere notizie su questo nuovo progetto e per fare il punto della situazione della parte più propriamente Prog della sua attività artistica.

Direi di iniziare con qualche domanda sul nuovo progetto a cui stai prendendo parte ormai già da qualche tempo, il Kate Hinote Trio. La prima cosa che ho notato è che vivete tutti e tre nella zona di Detroit, cosa che suppongo faciliti molto le cose. Come hai incontrato Kate Hinote e David Johnson e come è iniziata la vostra collaborazione?

Per prima cosa devo dire che è molto bello essere nuovamente in contatto e sono davvero grato di avere la possibilità di condividere con i lettori di OPEN le mie recenti vicende musicali. Allora, David Johnson è una sorta di “punto di riferimento” a Detroit e lo conosco da diversi anni. È un DJ di una radio locale, ha suonato la chitarra in diverse band ed è spesso presente ai concerti di tanti artisti diversi. Più di una volta è venuto a vedere gli spettacoli dei Discipline e anni fa suonava in una band assieme al nostro ex tastierista, David Krofchok. La sua cover band, giustamente chiamata Coverboy, ogni anno organizza un grande spettacolo a Detroit in cui presenta brani di un singolo artista (un anno Bowie, uno i Foreigner, l’ultima volta erano i Duran Duran). Dopo anni passati a vedere David in giro per la città, ho iniziato a ricevere sulla posta inviti per i concerti della sua nuova band, Kate Hinote and the Disasters, un trio con due voci femminili e lui alla chitarra acustica. Dopo aver rifiutato vari inviti alla fine sono andato ad assistere a un loro spettacolo e ti assicuro che fin dalle prime battute del concerto sono rimasto folgorato dalla voce di Kate Hinote. Era davvero una delle cantanti più intonate che mi fosse mai capitato di sentire in tutta l’area di Detroit. Ti confesso che ero senza parole ma allo stesso tempo sospettoso di tanta perfezione, tanto da aver pensato che stesse usando un autotune (dispositivo che regola l’intonazione della voce in tempo reale, n.d.t.) o qualche altro effetto digitale. Ricordo che trattenevo il respiro, in attesa che completasse le varie strofe, come se stessi ascoltando un musicista classico. Mi sembrava assurdo che un talento simile si stesse esibendo in una misconosciuta band di Detroit e non fosse sotto contratto con una major. Qualche tempo dopo sono stato invitato proprio da Kate a eseguire qualcuna delle mie canzoni nell’ambito di uno show acustico che lei stessa aveva organizzato. Al tempo non sapevo che, dietro le quinte, David stesse “tramando” per farmi entrare nel loro progetto musicale. In ogni caso, ho partecipato allo spettacolo insieme ad un’altra decina di artisti. Adesso che ci penso è stato non molto tempo dopo la mia esibizione a Roma (Matthew si è esibito a Roma, in un leggendario concerto solista, il 31 agosto 2017). I “piani” di David sono proseguiti con un invito ad aprire un concerto dei Blueflowers, un’altra sua band, stavolta con tanto di batteria e chitarra elettrica, nella quale cantava, manco a farlo apposta, proprio Kate. Dopo questi “contatti” è passato circa un anno prima che rincontrassi David. Ci siamo incontrati a un concerto dei Musical Box (celebre cover band dei Genesis, n.d.t.), al quale avevo portato mio figlio. Ho chiesto a David come andasse il trio acustico e lui mi ha detto che erano rimasti solo lui e Kate dato che l’altra cantante si era trasferita. A quel punto sono stato io a farmi avanti e gli ho detto che se avessero avuto voglia di sperimentare un po’ mi sarebbe piaciuto provare con loro con il violino. Kate canta così bene e ha un dono così straordinario per la melodia che desideravo veramente tanto suonare con lei. Ti confesso che volevo anche avere l’occasione per rendermi conto se cantasse davvero in quel modo o usasse qualche trucco. Sono passati alcuni  mesi e ho pensato che la mia proposta fosse caduta nel vuoto, invece un giorno Kate mi ha chiamato per chiedermi se mi andasse di portare il mio violino a una delle prove del loro duo. Ricordo che quella sera improvvisai delle melodie che legavano bene con la voce di Kate e che a loro piacquero molto. Chiesi a Kate se preferiva che continuassi ogni volta ad improvvisare o che scrivessi invece delle vere e proprie partiture. Lei scelse la seconda opzione dato che voleva che mi unissi al gruppo su base fissa per i concerti che sarebbero arrivati da lì a non molto. A questo punto posso anche svelarti il “mistero” della voce di Kate… ebbene non c’è nessun trucco, canta proprio così, tutto il tempo, e devo confessarti che da cantante sono un po’ invidioso dato che spesso e volentieri ingaggio delle vere e proprie lotte con l’intonazione. Vorrei tanto riuscire a capire come ci riesce…

Kate Hinote Trio (from left to right: David Johnson, Kate Hinote, Matthew Parmenter)

Nel disco suonate solo voi tre senza tracce aggiuntive (piano, seconda chitarra, cori…). L’intento era quello di proporre i brani nella stessa veste in cui li avreste poi proposti dal vivo?

Le tracce sono state realizzate dal vivo nello studio con solamente voce, violino e chitarra. L’intento di Kate era quella di evitare sovraincisioni (tranne che in un brano dove c’è una seconda traccia vocale) allo scopo di restituire all’ascoltatore l’esperienza di un concerto. La cosa può suonare strana a volte. Devo dire che non si tratta di musica folk, sebbene sia completamente acustica. A dire il vero non saprei in che genere classificarla. Rob Reinhart, un Radio DJ di Detroit che conduce programmi come “Essential Music” e “Acoustic Cafè”, ci ha classificati come “rock acustico”. Credo che renda abbastanza bene l’idea, anche se noi nei comunicati stampa ci definiamo un trio di “folk alternativo”.

Mi piacerebbe sapere qualcosa del brano che hai scritto per questo disco “Where You Dream Now” dato che è la traccia che preferisco. Ci puoi raccontare qualcosa? Ad esempio… è un brano in 7/8, o sbaglio?

Il Kate Hinote Trio non è un gruppo prog. Lo specifico per non dare ai lettori informazioni errate. Detto questo, non posso negare di aver avuto l’ispirazione per scrivere alcune melodie vocali per Kate e il mio stile compositivo tende naturalmente sempre un po’ verso il progressive. A dire il vero spesso non mi rendo nemmeno conto di stare scrivendo un brano con un tempo dispari fino a che non lo riascolto in un secondo momento. In ogni caso mi intrigava un po’ l’idea di inserire nel repertorio del trio una melodia su un tempo dispari, come se fosse una “strizzatina d’occhio” agli amanti del progressive o comunque a quelli a cui piacciono i tempi “storti”. Così è stato, e la canzone ha preso la sua forma definitiva dopo che Kate ci ha aggiunto il testo. Per quanto riguarda il tempo, preferisco contarlo in semiminime, come 7/4 piuttosto che 7/8. Ci piace suonare la canzone dal vivo, spesso come brano finale. Il pubblico sembra apprezzarne l’energia, anche se sono sicuro che molti non si rendano nemmeno conto che non si tratta del solito vecchio 4/4. Tornando al fatto che il Trio non suona progressive, devo però dire che sono rimasto molto sorpreso dalla calda accoglienza che abbiamo ricevuto dagli appassionati di questo genere. Non pochi hanno accolto la nostra proposta con un certo apprezzamento. Mi sono sorpreso nel constatare che questa musica, e la voce di Kate, abbiano fatto breccia anche tra questi ascoltatori, di solito molto esigenti.

Come mai avete deciso di includere nel disco un tuo vecchio brano, Some Fear Growning Old?

L’attività di Kate come cantante ha attirato spesso l’attenzione di numerosi musicisti e autori dell’area di Detroit, molti dei quali le hanno proposto propri brani da inserire nel suo repertorio. Nel disco che abbiamo realizzato col Trio ci sono pertanto pezzi scritti da Kate accanto a brani di artisti della locale scena musicale. Immagino sia stato anche un modo per Kate di esprimere il suo apprezzamento nei confronti di artisti che lei stima e apprezza. Per quanto riguarda Some Fear Growing Old, come ben sai si tratta di un brano che ho inserito nel mio primo album solista (ASTRAY pubblicato nel 2004). A Kate piaceva, più che la versione in studio, quella dal vivo che avevo eseguito al NEARfest e che era stata pubblicata sul DVD del concerto. Devo dire che Kate ha fatto un bellissimo lavoro nel realizzare la cover di questo brano. Mi piace in particolare la sua estensione vocale che va dal più basso contralto di petto fino a un soprano “flautesco”. Non sono sicuro del motivo per cui abbia scelto di registrare questa canzone nell’album, ma le sono grato. É davvero un’esperienza magica ascoltare questa canzone che ho registrato io stesso diciotto anni fa trasformata da un cantante di cui adoro la voce. Il Trio esegue raramente Some Fear Growing Old dal vivo. Sebbene sia la traccia che chiude il disco e sia in uno stile che ricorda una sorta di Simon & Garfunkel più cupi, sinceramente credo che la canzone sia una sorta di àncora emotiva in un concerto che dovrebbe attirare e intrattenere il pubblico. I testi sulla morte, la perdita e la riconciliazione, non sono certo i benvenuti in un concerto normale. Il Trio in genere viene ingaggiato per suonare in bar o caffetterie dove non ci si aspetta che tutti gli spettatori ascoltino con la dovuta attenzione e dove una canzone troppo delicata potrebbe perdersi tra il chiacchiericcio del pubblico. Per questo motivo la eseguiamo solo in spettacoli a cui pensiamo parteciperanno ascoltatori che hanno familiarità con la mia musica o con quella dei Discipline. Ad esempio, l’abbiamo eseguita in un set virtuale per il festival di musica Progstock, dove ci siamo esibiti come apertura ai Discipline. E l’abbiamo suonata anche in un concerto privato organizzato da un seguace di lunga data dei Discipline che nel frattempo si è appassionato anche al Trio. Di tanto ce la rischiamo e la suoniamo in un concerto più normale, ma solo se sentiamo che il pubblico è in sintonia o è particolarmente tollerante. Ma più spesso il brano rimane appannaggio solo degli ascoltatori del disco. Where You Dream Now con il suo ritmo vivace è una scelta più sicura per un concerto in un pub o un festival cittadino.

Matthew Parmenter (photo by Doug Susalla)

È un grande piacere, ascoltando il disco, poterti finalmente sentir suonare il violino così tanto. Sicuramente sei molto migliorato dai tempi di PUSH & PROFIT. Quand’è che hai cominciato a studiare questo strumento e come sono andate le cose nel corso degli anni?

A differenza del pianoforte, che suonavo ad orecchio fin da piccolo, il violino mi è stato imposto dai miei genitori. Il pianoforte è stato il mio primo amore, per certi versi il mio unico amore. Ho suonato il piano a partire da due anni, forse prima. Ho imparato a imitare i brani che ascoltava mia madre e che i miei fratelli maggiori eseguivano mentre prendevano lezioni. Ho iniziato a scrivere semplici melodie all’età di tre anni. Questo probabilmente ha influito negativamente sul mio sviluppo sociale poiché preferivo sedermi al pianoforte piuttosto che giocare in giardino con gli altri. Era il mio mondo e lì mi sentivo al sicuro. Molto prima di fondare i Discipline, Mathew Kennedy e io eravamo compagni di giochi. Ci siamo incontrati per la prima volta quando avevamo solo tre anni, e quel giorno lo trascinai nella mia stanza per fargli sentire come suonavo il piano. Deve essergli sembrata una cosa un po’ strana. Ma allora avevamo solo tre anni, quindi chi può dirlo. Il risultato di tutto questo suonare il piano a orecchio è stato che sono diventato un perfetto imitatore. Il mio mondo privato è iniziato a crollare quando ho cominciato a prendere lezioni di pianoforte. Ho studiato con l’insegnante di pianoforte di mia madre, Clark Eastham, dall’età di circa dieci anni. Con lui suonavo le sonate di Mozart, i minuetti di Bach, i preludi di Gerschwin. Dopo molte lezioni, il mio insegnante ha pensato bene di darmi lo spartito di un nuovo brano e mi ha chiesto di studiarlo, cosa per me impossibile dal momento che non leggevo le note. Il mio modo di suonare era una specie di finzione perché suonare a orecchio non era certo il modo giusto per imparare davvero. A quel punto l’insegnante ha incoraggiato i miei genitori a farmi imparare uno strumento con cui non avevo alcuna familiarità proprio per costringermi a imparare a leggere la musica. Raccomandò il violino, appunto, e così iniziò un perpetuo imbarazzo con me stesso e la mia lunga lotta per imparare a leggere la musica. In un primo momento ho rifiutato le lezioni di violino e i miei genitori hanno minacciato di vendere lo strumento. Questa è una storia ideale per uno psicologo dell’infanzia. Alla fine ho ceduto e ho iniziato a prendere lezioni per non perdere lo strumento. Dopo circa un anno di lezioni col metodo Suzuki nella scuola pubblica, con pezzetti di nastro adesivo sul manico del violino come segna-tasti, sono stato portato da James Waring, un insegnante che aveva suonato con la Detroit Symphony Orchestra. Lui mi ha tolto i pezzetti di nastro adesivo e abbiamo iniziato lezioni più accademiche. Alla fine ho imparato a leggere la musica, ma non molto bene, lo confesso. È sempre faticoso per me aspettare di tradurre le note che ho scritto su un pentagramma in qualcosa che posso finalmente ascoltare e poi suonare senza intoppi. Vado nel panico ogni volta che ci provo. All’età di diciassette anni, ho fatto un’audizione per frequentare il corso di violino al Conservatorio Oberlin, ma ho fallito clamorosamente, dimenticando a metà esecuzione uno dei brani che credevo di aver memorizzato. Ovviamente sono stato scartato e per l’umiliazione ho messo via il violino per anni. Ho frequentato comunque Oberlin, ma invece di andare al conservatorio mi sono iscritto al college dove mi sono laureato in Scrittura Creativa. Anche se successivamente ho avuto alcuni appuntamenti romantici con studentesse del Conservatorio di Oberlin, e una volta ho suonato un duetto di violino con una di loro (ah, gioventù!), dal punto di vista musicale devo dire che mi sono dedicato principalmente alla mia band, i Discipline, scrivendo la mia musica strana e trascurando il violino. Tuttavia il violino non è mai stato completamente messo via. A volte lo utilizzavo per realizzare sovraincisioni su una traccia già registrata, a volte lo usavo per scrivere musica. Il tema principale della canzone Rogue dei Discipline è stato scritto sul violino e solo in seguito trascritto per chitarra. In ogni caso la maggior parte delle volte suonare il violino è stato per me qualcosa di privato, mescolato a sensazioni di imbarazzo e vergogna. Da quando collaboro con il Trio, per la prima volta nella mia vita, sono finalmente felice di suonare questo strumento. È un grande passo avanti suonarlo di nuovo con regolarità e per me è molto emozionante. Un po’ come ritrovare un’altra parte di sé.

Lo scorso agosto è stato il quarto anniversario della tua esibizione solista a Roma (31 agosto 2017, presso l’auditorium della scuola di musica “Lo Sciamano”) e del concerto dei Discipline al 2Days Prog + 1 di Veruno (2 settembre 2017). Ti va di condividere con i lettori qualche ricordo dei due eventi?

Si tratta di ricordi magici, che ad anni di distanza sembrano quasi un sogno. Tu e Paolo Carnelli siete stati così gentili a invitarmi a suonare a Roma. Ricordo che l’esibizione è durata quasi due ore, una lunghezza dura da sopportare per il pubblico. Ricordo che faceva caldo, il condizionatore forse non funzionava, e il mio trucco da mimo si è sciolto. Il pubblico usava i ventagli per rinfrescarsi ma hanno davvero applaudito con entusiasmo, quindi penso che sia stato ben accolto. Ricordo di essermi sentito molto grato nei confronti delle persone, ogni volta che riconoscevano un brano, e ogni volta che, dopo averlo riconosciuto, applaudivano. Proprio come accade a un vero artista. Ricordo la vostra generosa ospitalità, la cena dopo il concerto e il buon vino. E le pazze stradine serpeggianti di Roma con le loro scalinate di pietra.

Ci puoi raccontare qualcosa della nuova edizione di UNFOLDED LIKE STAIRCASE, che è stato remixato da Terry Brown? In cosa è diverso rispetto all’edizione originale?

Visto il ritardo con cui ti ho mandato le risposte di quest’intervista, nel frattempo il disco è stato pubblicato e quindi probabilmente potresti descriverlo tu meglio di me. Il nuovo mix è, ovviamente, stellare! Terry Brown capisce intuitivamente quali suoni portare in primo piano nel mixaggio, e ti sorprende con quelli che decide di mettere più indietro. Adesso c’è di gran lunga più profondità e chiarezza nella musica contenuta nel disco. La scena sonora è ampia, sia in profondità che in altezza, per usare un gergo audiofilo. Tutto ciò prima, semplicemente, non esisteva. Adesso si può sentire distintamente il basso di Mathew Kennedy, e non è più rimbombante come nell’edizione originale. Per non parlare della batteria: presente, pulita, professionale. Non è più sporca! Magari alcuni ascoltatori sono ormai abituati al vecchio mix così poco pulito, ma io ho sempre pensato che fosse un grosso punto debole del disco, dato che era il risultato del nostro approccio “fai-da-te”. Sono grato a Terry per essersi reso disponibile alla realizzazione di questa ristampa. A tal proposito, devo sottolineare l’importanza fondamentale che ha avuto Chris Herin in questo frangente e non solo. Quando il nostro chitarrista Jon Preston Bouda ha lasciato la band intorno al 2009, Chris (leader della band Tiles) si è offerto di aiutarci. Senza Chris non avremmo potuto suonare dal vivo e non avremmo potuto pubblicare CAPTIVES OF THE WINE DARK SEA. Non avremmo potuto esibirci nel Regno Unito, in Italia, in Spagna, in Messico o in altri festival o tour più recenti. Inoltre, anche se da tempo parlavamo di una futura ristampa in vinile di UNFOLDED LIKE STAIRCASE, è stato solo grazie a Chris Herin che tutto si è concretizzato. Chris si è avvicinato a Mark e Rayna Monforti di ProgRock e gli ha suggerito di chiedermi di ripubblicare l’album. Anche se Chris non ha suonato in quel disco, il suo entusiasmo, i suoi contatti e la sua amicizia di lunga data con Terry Brown, hanno reso questa ristampa una realtà. Se ti piace il nuovo mix, un ringraziamento non piccolo va a Chris Herin. Potrei infine sottolineare il ruolo importante che Chris sta avendo anche nella realizzazione dei brani che costituiranno il nostro prossimo disco. Sono terribilmente grato a Chris per la sua amicizia e il suo supporto.

Discipline (from left to right: Mathew Kennedy, Chris Herin, Matthew Parmenter, Paul Dzendzel. photo by Doug Susalla)

C’è per caso nell’aria anche l’idea di remixare e ristampare anche PUSH & PROFIT?

No, non ci sono piani riguardo una ristampa di PUSH & PROFIT. Quel disco, con tutte le sue pecche è mixato in maniera accettabile rispetto a UNFOLDED LIKE STAIRCASE, senza considerare che, comunque, è molto meno conosciuto. Credo che nessuna etichetta discografica potrebbe essere interessata a ristamparlo. Sarebbe bello stamparlo in vinile ma è qualcosa su cui non sarebbe saggio investire nemmeno a livello di autoproduzione.

Che piani ci sono per la band e per un tuo nuovo lavoro solista?

Con i Discipline stiamo lavorando a un nuovo disco. I brani sono già stati scritti e li stiamo provando per essere pronti a registrarli. Non faccio previsioni sui tempi per cui non ho molto altro da aggiungere al momento attuale. Lo stesso si può dire per il mio materiale solista. Ho diverse canzoni pronte che attendono solo di essere registrate, ma per adesso i Discipline sono la mia priorità. Mio figlio è diventato un eccellente batterista e spero di poter registrare qualcosa con lui. In una traccia nascosta su HORROR EXPRESS (il secondo album solista di Matthew, pubblicato nel 2008) lo si sentiva suonare la batteria quando aveva 5 anni. Ora che è cresciuto è diventato uno dei migliori batteristi che conosco. Ha un’eccellente inclinazione verso il progressive rock e una sensibilità che manca in molto batteristi rock. Ultimamente sta studiando anche batteria jazz. Spero davvero di poter registrare qualcosa con lui prima che diventi troppo indaffarato per dare una mano al suo anziano padre!

Hai in programma altre collaborazioni musicali nel prossimo futuro? Magari proprio con Chris Herin che so essere al lavoro sul primo disco solista…

Chris Herin sta dando i tocchi finali al suo disco solista, il cui titolo di lavoro è DARK DAYS IN PAPIER MACHE. È stato un lavoro molto impegnativo, e contiene testi davvero intensi dato che riguardano l’esperienza di Chris nel vedere suo padre soccombere al morbo di Alzheimer. Le canzoni spaziano da brani introspettivi a brani molto rock. Nel disco compaio come ospite e mi occupo di alcune tracce vocali e di tastiera. Chris mi ha anche permesso di collaborare alla scrittura di un paio di brani. Ci sono numerosi altri musicisti ospiti, molti dei quali hanno un legame personale con il progetto, avendo perso i propri cari a causa della malattia. Chris donerà all’Alzheimer’s Association tutti i proventi delle vendite dell’album. Per lui è stato un modo di elaborare la sua perdita, credo, e un modo per trasformare l’esperienza negativa in qualcosa di positivo.

Per concludere, hai un messaggio per i tuoi fan italiani?

Apprezzo molto l’interesse per la mia musica da parte degli ascoltatori in Italia. Ogni atto di scrivere canzoni è un atto di fede, in un certo senso. Alcune canzoni funzionano meglio di altre e, come scrittore, si prova una sorta di gioia nel processo creativo. Ma non so mai se il mio lavoro verrà ascoltato e se verrà compreso dal punto di vista artistico. Ho avuto la fortuna di aver trovato un pubblico in Italia. Sono grato alle persone che hanno dedicato al mio lavoro un po’ del loro tempo. È tremendamente gratificante per me. A chi in Italia si identifica come mio fan, il mio messaggio è semplicemente GRAZIE.

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