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Pubblicato il Gennaio 31st, 2021 | by Lorenzo Barbagli

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The Mars Volta: il prog del XXI secolo

Provenienti dall’esperienza post hardcore degli At the Drive-In, il chitarrista Omar Rodriguez-Lopez e il cantante e frontman Cedric Bixler fondarono nel 2001 i The Mars Volta, una band destinata a lasciare un segno importante nel prog alternativo. Coadiuvati da una line – up in costante sviluppo e aperta a vari rimodellamenti, nell’arco di sei album e dieci anni di attività il duo ha sondato ogni aspetto del proprio sound, rimettendosi in gioco in ogni lavoro con risultati alterni. Il loro modo di concepire il progressive rock partendo da premesse post hardcore, per sposarle poi con generi apparentemente lontani tra loro come psichedelia, jazz e musica latino-americana, non assomigliava a nessun altro. Per questo i The Mars Volta hanno lasciato una profonda influenza soprattutto nel rock alternativo statunitense del nuovo millennio, fornendo un inedito impulso per aprire la strada a commistioni tra stilemi fino a quel momento impensabili.



DE-LOUSED IN THE COMATORIUM (Universal Records, 2003) Con il loro esordio, i The Mars Volta hanno ridefinito le coordinate del progressive rock moderno, almeno se lo si intende nella sua massima forma di libertà espressiva, commistione tra generi e complessità strumentale. Tutto ciò suona ancora più strano se si pensa che a realizzare l’impresa siano stati due ragazzi cresciuti a pane e Black Flag: mentre erano all’apice del successo con gli At the Drive-In, ebbero il coraggio di cambiare totalmente direzione. E fu così che Bixler e Rodriguez-Lopez si presentarono con un concept album prodotto da Rick Rubin e copertina realizzata dagli studi grafici di Storm Thorgerson (tanto per rimanere in ambito progressivo). L’opera fondò e allo stesso tempo definì un nuovo genere, dando vita ad un mix di progressive hardcore futurista che non aveva niente a che vedere con i virtuosismi e i riff del prog metal, fornendo la sensazione di un lavoro definitivo e irripetibile. Al suo interno trovano spazio jam chitarristiche, rumori astratti, esotismi latino-americani, potenti assalti elettrici bilanciati con giostre spaziali di tastiere. Le peculiarità che lasciarono il segno furono la batteria indomabile di Jon Theodore, la voce stentorea e mai più così matura di Bixler e la chitarra schizoide di Rodriguez-Lopez. Le schitarrate epilettiche erano un’esasperazione dell’emocore, mentre i fraseggi robotici, come quelli su Take the Vail Cerpin Taxt, le ritmiche marziali e irrazionali disegnavano nuove geometrie math rock. Le influenze dub emergevano negli intermezzi di Eriatarka, le cadenzate arie latino-americane alla Santana raggiungevano l’apice della frenesia negli schianti apocalittici di Drunkship of Lanterns, mentre il basso elastico dell’ospite Flea (Red Hot Chili Peppers) tratteggiava spazio e profondità, dando prospettiva alle battute. In sessanta convulsi minuti i The Mars Volta reinventarono il rock per l’uomo schizoide del ventunesimo secolo, fondendo spregiudicatamente hardcore punk, psichedelia e progressive rock con risultati spettacolari e inaspettati.



FRANCES THE MUTE (Gold Standard Laboratories, 2005) Il processo di produzione di FRANCES THE MUTE fu alquanto elaborato, dato che ogni strumentista provò e registrò le proprie parti isolato dagli altri membri del gruppo, ascoltando il risultato di ogni brano completo solo a prodotto finito. Questa metodologia di lavoro, che in un certo modo si ispirava a quella utilizzata anche da Miles Davis, non fu presa in considerazione invece per il lungo tronco strumentale della conclusiva Cassandra Gemini, che era essenzialmente una jam editata in studio. Nell’album comparivano come ospiti Lenny Castro, John Frusciante, Flea, già presenti nel precedente, con l’aggiunta di Adrián Terrazas-González (ai fiati), poi reclutato come membro effettivo del gruppo. Rodriguez-Lopez riuscì a invitare persino il pianista salsero Larry Harlow, da lui molto ammirato, che suonò su L’ Via L’ Viaquez e Cassandra Gemini. L’immagine della copertina era di nuovo opera di Storm Thorgerson e prendeva vagamente spunto dal dipinto “Gli Amanti” di René Magritte. Come seconda prova si può teorizzare che FRANCES THE MUTE fu per i The Mars Volta l’equivalente artistico di IN THE WAKE OF POSEIDON per i King Crimson. Alcune idee musicali erano ricalcate dal primo album, ma tutto era portato a livelli estetici smisurati: nei suoi settantasette minuti di durata si espandevano cinque tracce di rock ipercinetico, ambient abissale, jazz-core, sperimentazione psichedelica, musiche latine, mariachi e western. In particolare, la dolente ballata dall’impronta floydiana Miranda That Ghost Just Isn’t Holy Anymore e The Widow erano le dirette interessate per quel che riguarda l’influenza latino americana, mentre l’apoteosi veniva raggiunta su L’ Via L’ Viaquez, un potente rock-salsa che marcava ancora di più il proprio esotismo grazie al cantato in spagnolo di Bixler. La furia punk hardcore dei The Mars Volta si attaccava questa volta ai groove space rock di Cygnus…Vismund Cygnus e alle dilatazioni da caos primigenio di Cassandra Gemini. La batteria di Theodore ritornava alle sue ritmiche spasmodiche e la chitarra di Rodriguez-Lopez si inerpicava nelle abituali contorsioni sonore come un Robert Fripp intento a suonare salsa psichedelica. Per dare maggior risalto alla mezz’ora di epica drammaticità di Cassandra Gemini, i The Mars Volta utilizzarono per la prima volta anche una sezione di fiati e una di archi. Nella sua lunga durata però FRANCES THE MUTE difettava paradossalmente in varietà, non offrendo la ricchezza di spunti tematici presente su DE-LOUSED IN THE COMATORIUM. Ogni brano era allungato da intro e outro ambientali con loop, rumori e suoni manipolati e, fondamentalmente, aggiungendo intermezzi strumentali a strutture tematiche abbastanza convenzionali formate da strofa e ritornello. Il brano che dava il titolo all’album, che inizialmente avrebbe dovuto comparire in apertura, fu in seguito lasciato fuori di proposito e realizzato sotto forma di lato B del singolo The Widow. Come il booklet scritto per DE-LOUSED IN THE COMATORIUM, esso doveva servire, a detta della band, come “decoder track”, in altre parole come un’appendice per interpretare il concept trattato su FRANCES THE MUTE.



AMPUTECHTURE (Gold Standard Laboratories, 2006) AMPUTECHTURE rappresentò il vero primo punto di distacco dai The Mars Volta degli esordi, facendo un salto quantico verso un progressive rock di maniera, caratterizzato da un suono più marcatamente in stile Yes e King Crimson e ampliando il proprio spettro sonoro al jazz spaziale di Sun Ra con l’ausilio sempre più presente di fiati e sintetizzatori, dove la line-up si allargò addirittura a nove elementi. In sostanza il disco era una declinazione delle possibilità soniche offerte dalla cornucopia di Cassandra Gemini, ovvero la chiave di volta che aprì Rodriguez-Lopez a innesti di jazz rock spigoloso nella maestosa Day of the Baphomets, grazie a un uso più presente del sax tenore di Terrazas-González. Oppure, improvvisando con cacofonie free form su El Ciervo Vulnerado e nell’ouverture-flusso-di-coscienza di Vicarious Atonement, dove Bixler-Zavala era accompagnato solo dalle chitarre che doppiavano il suo canto. La suite Tetragrammaton era indicativa allo stesso tempo di pregi e difetti di questa nuova concezione musicale, con improvvisazioni equamente distribuite tra jazz rock e psichedelia. Meccamputechture era fondamentalmente un blues gospel che faceva riaffiorare influssi di dub. Anche se l’album conferma l’emergere dello spettro dell’autoindulgenza, è da considerarsi ugualmente un nuovo punto di vista nel panorama del jazz progressivo. AMPUTECHTURE segna un punto di non ritorno che era stato appena accennato su FRANCES THE MUTE: i The Mars Volta, più che ad un gruppo vero e proprio, cominciavano a somigliare a un collettivo sotto la direzione artistica di Rodriguez-Lopez che, da qui in avanti, si farà produttore unico di tutti i lavori; i concerti si trasformarono in logorroiche jam session d’improvvisazione che potevano protrarsi oltre i quaranta minuti, talvolta indisponendo anche il pubblico. L’approccio alla registrazione fu simile a quello adottato su FRANCES THE MUTE, utilizzando molta improvvisazione in studio, tanto che John Frusciante, responsabile per la maggioranza delle parti di chitarra nell’album, imparava cinque minuti prima quello che avrebbe dovuto registrare in seguito.



THE BEDLAM IN GOLIATH (Gold Standard Laboratories, 2008) THE BEDLAM IN GOLIATH risulta, dal punto di vista sonico, l’album definitivo dei The Mars Volta: impossibile spingersi oltre. In più ribolle di tutto il caotico lavoro del quale era stato oggetto. Nelle sue dodici tracce non c’è spazio per alcuna sosta. Molti dei vezzi da improvvisazione degli album precedenti vengono alleggeriti in favore di composizioni a loro modo strutturalmente più contenute, come a rappresentare una reazione ad AMPUTECHTURE. Ciò che contraddistingue THE BEDLAM IN GOLIATH sono però le sonorità sature e dense che si accumulano in un bombardamento incessante di quasi settantasei minuti, non aiutando di certo la scorrevolezza del lavoro. Quasi tutta la band ha mutato l’approccio ai propri strumenti: Bixler eccede in falsetti e vocalità nasali, le chitarre e le tastiere confluiscono in un massiccio flusso space rock, le frullate frenetiche del nuovo batterista Thomas Pridgen sono una versione spersonalizzata e vacua del drumming di Theodore, i fiati di Terrazas-González traboccano di note torrenziali e spigolose. Basterebbe dare un’occhiata su YouTube all’esibizione del gruppo mentre si getta in una performance indiavolata del singolo Wax Simulacra al Late Show di David Letterman, per comprendere il caos primigenio scatenato da THE BEDLAM IN GOLIATH. In pratica era un’opera che portava all’eccesso tutto ciò che avevano provato i The Mars Volta: il post hardcore era diventato definitivamente progressive rock che amalgamava funk e ritmiche latine (Goliath, Ilyena, Agadez e Ouroborous), blues psichedelico (Conujugal Burns) e fusion trasfigurata in jazz-core (Askepios, Cavalettas). Il carico mastodontico di THE BEDLAM IN GOLIATH è già riassunto nei due brani di apertura Aberinkula e Metatron, uniti come un’unica suite, caratterizzati da influssi di musica mediorientale, jam chitarristiche impazzite compresse in un’abbondanza orchestrale multistratificata e fuori controllo. Dopo THE BEDLAM IN GOLIATH arrivano anche dei riconoscimenti ufficiali: nel luglio 2008 la rivista Rolling Stone nomina i The Mars Volta “Best Prog-Rock Band” e nel 2009 il gruppo viene per la prima volta nominato ai Grammy Award, vincendo nella categoria “Best Hard Rock Performance” con il pezzo Wax Simulacra.



OCTAHEDRON (Warner Bros. Records, 2009) Rodriguez-Lopez, riferendosi a OCTAHEDRON, parlò di brani più tranquilli che andavano a compilare un album dalle atmosfere rilassate, come una specie di reazione alla frenesia straripante di THE BEDLAM IN GOLIATH, affermando che sarebbe stato l’album acustico dei The Mars Volta. Al fine di rendere le sonorità della band non troppo elaborate e più gentili, Rodriguez-Lopez decise di sfoltire le fila della formazione, licenziando su due piedi il chitarrista e manipolatore di suoni Paul Hinojos e il sassofonista Terrazas-González. OCTAHEDRON alla fine risulta un compromesso tra quanto affermato da Rodriguez-Lopez e il classico spirito della band: “Inizialmente dichiarai che questo avrebbe potuto essere il nostro album acustico proprio perché pensavo che lo sarebbe stato: ne ero davvero certo. Poi, col passare del tempo, durante le registrazioni abbiamo optato per una via di mezzo, sempre per il fatto che non amiamo gli schemi prefissati”. Anche la durata di OCTAHEDRON che, con i suoi cinquanta minuti, diviene l’album più breve prodotto dai The Mars Volta, dimostra una volontà di cambiamento. Bixler parlò addirittura del lavoro come del loro album pop, cosa che andava intuitivamente ricondotta alla struttura formale dei brani, che rispettava delle direttive piuttosto ortodosse. Rodriguez-Lopez questa volta si tuffa a piene mani nella psichedelia floydiana per ricavarne delle ballate elegiache come Since We’ve Been Wrong, With Twilight As My Guide e Copernicus, che fanno emergere ancora la malinconia latina della band. Dall’altra parte, pezzi come Teflon, il singolo Catopaxi, Desperate Graves e Halo of Nembutals, riportano a galla i The Mars Volta genuini del passato. OCTAHEDRON è l’antitesi di tutto quello che aveva fatto finora il gruppo, una prova per cercare una nuova prospettiva, non un cambio di direzione, ma una momentanea pausa di riflessione. Le sfuriate jazz-core e le interminabili jam erano state sostituite da narcotiche canzoni psichedeliche e vacui involucri di hardcore pop. L’album è anche il più eterogeneo della discografia marsvoltiana, cosa che si rifletté sugli argomenti scelti da Bixler per le sue liriche, questa volta slegate dai parametri del concept album.



NOCTOURNIQUET (Warner Bros. Records, 2012) L’uscita del sesto album in studio dei The Mars Volta, NOCTOURNIQUET, fu procrastinata fino al 2012; la line-up non prevedeva più le tastiere di Ikey Owens, Frusciante e le percussioni di Marcel Rodriguez-Lopez che, seppur accreditato, non suonava nell’album. La maggioranza delle parti strumentali venne registrata nel 2009, subito dopo OCTAHEDRON ma, il fatto che Bixler non avesse ancora delle liriche pronte, ne ritardò l’uscita. Il lungo ritardo permise l’anticipazione dal vivo di molte tracce contenute su NOCTOURNIQUET, anche se la resa in studio di quanto sentito è sostanzialmente differente. Rodriguez-Lopez ebbe tempo di manipolare e plasmare a suo piacimento il materiale e trasfigurarlo fino a renderlo a tratti irriconoscibile. Quella che ne uscì fu ancora una volta un’opera eterogenea, ma anche la più anarchicamente ambiziosa. NOCTOURNIQUET riesce a suonare allo stesso tempo simile e diverso da tutto ciò che la band ha fatto in passato. E’ un album di equilibri contrastanti che si compensano e annullano a vicenda. Se da una parte si crogiola in sperimentazioni sonore inusuali, dall’altra, l’apparato formale è più tradizionale del solito. Se Bixler è rimarchevole, ma anche ossessivo, nella costante ricerca di una vocalità rinnovata (l’esempio più lampante nel singolo The Malkin Jewel), dall’altra si smarrisce in essa, finendo per penalizzare delle linee melodiche non molto memorabili. NOCTOURNIQUET si apre con l’abrasiva The Whip Hand, la più ostica tra le tredici tracce. Il nuovo batterista Deantoni Parks si esibisce in ritmiche spezzate, quasi sgraziate, come fosse un bambino al quale è stato appena regalato il suo primo drum kit, mentre Rodriguez-Lopez utilizza chitarra e sintetizzatori come fossero martelli pneumatici. Aegis può essere considerata la vera canzone introduttiva a impostare il tono dell’album, misteriosa e seducente come un ibrido tra una soundtrack di Angelo Badalamenti e l’hard rock dei Led Zeppelin. E’ proprio lo spirito di questi ultimi, piuttosto che il progressive rock, ad aleggiare in alcune composizioni come l’indiavolato blues di Molochwalker, o la luciferina Trinkets Pale of Moon. All’estremità opposta, a segnare il carattere sperimentale dell’album, c’è In Absentia, un trip psichedelico quasi astratto al quale viene incollata una coda da electro-rock. Le folli invenzioni percussive di Parks e l’arsenale di sintetizzatori usati da Rodriguez-Lopez sono probabilmente la vera novità di NOCTOURNIQUET. I The Mars Volta avevano da sempre dato un ruolo prominente a ritmiche sature e virtuose e questa volta riescono a donare un rinnovato impulso a tale aspetto. Su Dyslexicon, Lapochca e la title-track, Parks modella i suoi battiti irregolari in funzione dell’elettronica profusa da Rodriguez-Lopez, facendone un tutt’uno incredibilmente omogeneo. Le cose funzionano meno bene su Zed and Two Naughts che ambisce ad alleggerire l’avanguardia con soluzioni più regolari e un ritornello facilmente memorizzabile. Accanto a pezzi più adrenalinici non manca una varia selezione di ballad: Empty Vessels Make the Loudest Sound è la solita variazione su Televators; Imago ha uno sfumato sapore gitano, mentre Vademalady è la canzone più orecchiabile e cantabile mai scritta dal gruppo, insolitamente dolce rispetto al loro temperamento irruento. Alla fine dei conti NOCTOURNIQUET è un lavoro riuscito a metà che lascia la sensazione di avere preso parte a un enigma irrisolto.

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