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Pubblicato il Novembre 3rd, 2020 | by Paolo Formichetti

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Spock’s Beard: il lato solare del prog

Gli anni ’90 hanno visto fiorire nelle più disparate parti del mondo decine di nuove band che hanno iniziato a proporre prog di varie tipologie, caratterizzato spesso e volentieri da un alto livello qualitativo. Se le terre scandinave sono state foriere di un prog gelido e cupo di prevalente ispirazione crimsoniana, negli Stati Uniti si fecero notare band dal piglio solare che si rifacevano a gruppi quali Yes, Genesis, Kansas e Gentle Giant. Oltre agli straordinari Echolyn, precedentemente trattati in una Guida a loro dedicata, uno dei gruppi che più colpì mente e cuore di un grandissimo numero di appassionati, furono i californiani Spock’s Beard. In questa Guida all’Ascolto prenderemo in esame la loro vasta discografia in studio tralasciando dischi dal vivo e progetti paralleli.




THE LIGHT (Syn-Phonic, 1995) – Gli Spock’s Beard si formano nel 1992 a Los Angeles grazie al tastierista e vocalist Neal Morse e a suo fratello Alan, chitarrista. Ai fratelli Morse si aggiungono il batterista Nick D’Virgilio, il bassista Dave Meros e il tastierista giapponese Ryo Okumoto (seppure solo come turnista, almeno in questa primissima fase di vita del gruppo). Il nome della band prende origine da un episodio della serie classica di Star Trek, nel quale un signor Spock proveniente da un universo parallelo porta la barba. Il primo disco della formazione viene pubblicato nel 1995 e sembra fatto apposta per colpire immediatamente gli appassionati sia dal punto di vista iconografico che musicale. Una buffa copertina raffigurante strane creature dal faccione grosso e rotondo racchiude infatti una track list di soli quattro brani, tra cui tre suite di lunghezza variabile tra i 12 e i i 23 minuti. La prima traccia, omonima, è il brano che caratterizza pienamente lo stile della band. Si tratta infatti di una lunga, travolgente sinossi di tutto che ciò che un appassionato di prog potrebbe desiderare: sinfonismo a manetta unito a linee vocali molto orecchiabili, cambi di ritmo, sequenze strumentali che uniscono abilità tecnica a melodie trascinanti, polifonie vocali in abbondanza, bizzarrie irresistibili come la spagnoleggiante danza del Senor Velasco o l’ironico e teatrale arrivo del Catfish-man. Quindici minuti che non annoiano mai, e restano stampati nella mente dell’ascoltatore. Il resto del disco prosegue senza un attimo di respiro sulla stessa falsariga, aggiungendo al piatto ulteriori ingredienti quali funky, citazioni floydiane, temi che si reiterano con mille variazioni, aperture di folk acustico, frullando il tutto fino a ottenere un’amalgama sonora sorprendente ed entusiasmante per livello qualitativo e maturità, tenendo conto che si tratta di un disco di esordio.




BEWARE OF DARKNESS (Radiant Records, 1996) – Il successo soprattutto di critica del disco d’esordio catapulta la band al Progfest ’95 di Los Angeles e la spinge a fondare una propria etichetta tramite la quale pubblicare in tempi rapidi il lavoro successivo (va sottolineato come, per la distribuzione europea la band si avvalga della GEP, gestita da Martin Orford degli Iq). Il disco viene registrato con l’ausilio dell’amico Kevin Gilbert (che passera a miglior vita a metà dei lavori) e vede il tastierista Okumoto entrare a pieno titolo nella band. Il titolo dell’album deriva dalla splendida rielaborazione in chiave prog del brano di George Harrison in esso contenuto. Cover a parte, le rimanenti tracce mostrano chiaramente come il lavoro di esordio non sia destinato a rimanere un evento isolato, come accaduto in passato a tante prog band a stelle e strisce. Thoughts suona come un geniale inedito dei Gentle Giant (seppur con sonorità moderne) con tanto di polifonie vocali a cappella, mentre The Doorway inizia con una splendida intro di solo pianoforte che non può non richiamare alla mente Firth Of Fifth, per poi proseguire in una suite perfetta caratterizzata da un giusto equilibrio tra virtuosismi strumentali e linee melodiche di immediata presa, il tutto splendidamente arrangiato con azzeccatissime alternanze tra parti elettriche concitate e rilassate aperture acustiche. Chatauqua è un breve intermezzo per sola chitarra acustica che potrebbe essere la Horizons degli anni ’90 e che prepara l’ascoltatore al trittico finale di brani tra i quali spicca la splendida suite Walking On The Wind, il cui ritornello accattivante e il finale lirico e sinfonico sono di quelli destinati a restare in mente.




THE KINDNESS OF STRANGERS (Radiant Records, 1997) – Quasi a convalidare l’antico detto, il terzo album degli Spock’s Beard arriva dopo solo un anno ed è l’ennesimo lavoro riuscito, a conferma che Neal Morse, principale autore del gruppo, è in un vero e proprio stato di grazia dal punto di vista compositivo. Di certo viene un po’ ad attenuarsi l’effetto sorpresa, ma il livello qualitativo del disco si mantiene molto alto: ottima la suite iniziale The Good Don’t Last¸ ma ottime anche le due tracce seguenti che dimostrano come si possa fare del buon rock progressivo anche contenendo il minutaggio delle composizioni. June è invece una meravigliosa ballad acustica, quasi commovente nei suoi delicati intrecci vocali, che permette a Neal Morse di dare sfogo alla sua anima pop (che di lì a poco sarebbe confluita in una lunga serie di album solisti realizzati, almeno all’inizio, parallelamente a quanto prodotto con la band). Gran finale con due suite, Harm’s Way nella quale fanno capolino persino tenui fraseggi jazzati e Flow il cui lungo ed epico finale chiude alla grande il disco. Da segnalare nello stesso anno la seconda partecipazione della band al Progfest di Los Angeles e un concerto come gruppo d’apertura per Fish.




DAY FOR NIGHT (InsideOut, 1999) – La fine degli anni ’90 vede gli Spock’s Beard allargare sempre di più il numero dei propri sostenitori tra i quali spicca Mike Portnoy, al tempo batterista dei Dream Theater, il quale arriva a definirli pubblicamente la migliore prog band del mondo. La cosa giunge alle orecchie della sempre più affermata etichetta tedesca InsideOut, che si affretta a metterli sotto contratto, ad organizzare il loro primo tour europeo (ben 19 date nel 1998) nonché a produrre il loro quarto album. Il disco è ancora una volta decisamente riuscito, pur non presentando il benché minimo cambiamento dal punto di vista stilistico rispetto ai precedenti. La voce calda e pop di Neal Morse, il basso pulsante e muscolare di Dave Meros, il drumming fantasioso di Nick D’Virgilio, i ricami tastieristici di Ryo Okumoto, l’eclettica chitarra di Alan Morse: tutto contribuisce a creare un vero e proprio stile Spock’s Beard. Le influenze (Yes, Beatles, Gentle Giant, pop, folk, AOR) sono tutte ben identificabili ma amalgamate perfettamente tra loro in maniera da creare un entusiasmante e delizioso distillato di un trentennio di rock progressivo, accessibile tuttavia anche a chi detto genere non lo frequenta più di tanto. Tra i brani migliori del disco vanno segnalati Gibberish, con una nuova stupenda polifonia a cappella di scuola Gentle Giant, la dolcissima ballad beatlesiana The Distance To The Sun, e la suite The Healing Color Of Sound che chiude alla grande il lavoro. Da segnalare il primo concerto in Italia della band (il 23 settembre 1999 al Babylonia di Biella) nel corso della tournè europea di presentazione del disco.




V (InsideOut, 2000) – Il 1999 si chiude con la pubblicazione del primo disco solista di Neal Morse, un disco di gradevolissimi brani pop che racchiude al suo interno anche una suite prog. All’inizio dell’anno successivo la band è di nuovo in tour, questa volta come gruppo di apertura dei Dream Theater (con ben tre date nostro paese: Roma, Firenze e Torino). L’intensa attività live non mette freno al furore compositivo di Neal Morse che trova il tempo di scrivere i pezzi che costituiranno il quinto lavoro in studio della band. L’album viene pubblicato ad agosto ed è intitolato con il semplice numero romano. Incredibile a dirsi ma ancora una volta Morse non sbaglia un colpo e il disco è l’ennesima perla in una discografia che tra album in studio, dischi dal vivo, DVD e raccolte di rarità si fa sempre più vasta. At The End Of The Day è l’ennesima riuscitissima suite che, in poco più di un quarto d’ora, racchiude tutte le variegate caratteristiche della band: rock energico, parti vocali che strizzano l’occhio al pop, divagazioni in odor di flamenco, aperture corali intrise di romanticismo e malinconia, assoli mai fini a se stessi ma sempre tendenti alla ricerca della melodia. Bella Revelation, dai lievi tocchi jazzati, e bello anche l’orecchiabile singolo All On A Sunday, ma autentiche gemme sono la cangiante Thoughts part 2, degno seguito dell’apprezzato brano presente su BEWARE OF DARKNESS, e la malinconica ballad acustica Goodbye To Yesterday, commovente fino alle lacrime. Gran finale con The Great Nothing, lunghissima suite che non dice nulla di nuovo dal punto di vista compositivo ma che mostra ancora una volta come Neal Morse e la band si trovino sempre a loro agio con le composizioni di ampio respiro.




SNOW (InsideOut, 2002) – Dopo la pubblicazione del quinto lavoro, gli Spock’s Beard iniziano un lungo tour promozionale che tocca Stati Uniti ed Europa e che li vede tornare a esibirsi nel nostro paese con una data organizzata in extremis in un paesino vicino Torino (il 3 giugno 2001 al Peocio di Trofarello). Ancora una volta il fitto calendario di date non impedisce a Neal Morse di pubblicare il suo secondo album solista (il cantautorale e pop-rock IT’S NOT TOO LATE) e di iniziare a comporre un ambizioso doppio concept album, il tutto con il pieno appoggio morale e finanziario della InsideOut, sempre più soddisfatta dei suoi pupilli. A lavorazione quasi ultimata i tragici eventi dell’11 settembre 2001 colpiscono molto Neal Morse, che già da un po’ di tempo mostrava un avvicinamento spirituale al Cristianesimo, e lo spingono a rimettere mano al disco soprattutto dal punto di vista dei testi. Le liriche del concept prendono quindi un piega messianica, raccontando la storia di un ragazzo albino (soprannominato per l’appunto Snow) dotato di misteriosi poteri, che intraprende un cammino irto di pericoli che metterà a dura propria la sua fede in Dio. Per quanto riguarda la parte musicale siamo di fronte a un album ipertrofico che si perde un po’ nelle 26 tracce che lo compongono e che probabilmente avrebbe trovato maggior equilibrio se avesse condensato i suoi momenti migliori in un unico disco. Certo non mancano brani di ottimo livello, basti ascoltare la coinvolgente Stranger In A Stranger Land, la struggente Solitary Soul, l’orecchiabile Long Time Suffering, la briosa Looking For Answers (scritta e cantata da D’Virgilio) o il finale corale di Wind At My Back, ma la sensazione di deja vu e una certa pesantezza nel procedere con l’ascolto sono suggestioni inedite che non avevano mai caratterizzato i precedenti lavori.  Terminate le registrazioni di SNOW, la band si trova a dover affrontare un evento impensabile: Neal Morse racconta ai compagni di aver ricevuto già da qualche tempo una sorta di illuminazione divina e di essersi convertito al cristianesimo. A suo dire Dio in persona lo avrebbe chiamato a sé ordinandogli di finire il disco e subito dopo di  lasciare la band rimanendo in attesa di ulteriori istruzioni.




FEEL EUPHORIA (InsideOut, 2003) – La band subisce un vero e proprio shock a seguito dell’inaspettata fuoriuscita del proprio leader a cui, nel frattempo, Dio si premura di fornire il preciso ordine di continuare la carriera solista avendo cura di alternare dischi prog a dischi cantautorali, continuando però a scrivere esclusivamente testi a sfondo religioso-cristiano (tematica sulla quale sembra incredibile quanto possa esserci ancora così tanto da dire…). I rimanenti membri tuttavia non si perdono d’animo, serrano le fila e si ricompattano adottando la strategia che, a suo tempo, caratterizzò i Genesis del post-Gabriel: il ruolo di cantante viene infatti assunto dal batterista Nick D’Virgilio, le cui ottime qualità vocali erano già evidenti per quanto realizzato in seno alla band oltre che nel suo lavoro solista (KARMA, uscito sotto la sigla NDV). Nonostante l’impegno profuso, un autore come Morse non si rivela tuttavia facile da sostituire e FEEL EUPHORIA viene fuori come una specie di mosaico musicale privo di una sua spiccata identità. Alcuni brani provano a percorrere i ben noti sentieri del prog, seppur con esiti inferiori a quanto realizzato in passato (l’insipida The Bottom Line, o la più riuscita, canonica, mega-suite A Guy Named Sid), mentre altrove si tenta di esplorare, con risultati mediocri, nuove strade (lo scialbo hard rock di Onomatopoeia o il pessimo miscuglio di pop, AOR ed elettronica della title track). Nel disco c’è spazio anche per le ballad, un altro dei cavalli da battaglia di Neal Morse, ma Shinig Star a dispetto del titolo non brilla affatto e Ghost Of Autumn è bella ma non all’altezza di analoghi brani scritti dall’ex-leader.




OCTANE (InsideOut, 2005) – Mentre Neal Morse va avanti come un treno nella sua carriera realizzando uno dopo l’altro dischi di prog, di pop, di inni sacri, oltre a mettere su infiniti progetti paralleli con musicisti vari (Mike Portnoy diviene uno dei suoi più stretti collaboratori), il gruppo continua a cercare una sua strada e realizza il secondo lavoro della “nuova era” dopo il balbettante FEEL EUPHORIA. Le nuove composizioni mostrano una band più decisa e sicura nell’allontanarsi dal frenetico e creativo prog del passato, prova ne sia anche l’assenza della canonica mega-suite. Prevalgono pertanto i brani soft, atmosferici (la pacata I Wouldn’t Let It Go), le ballad malinconiche (la bellissima She Is Everything o la meno riuscita Watching The Tide), le pop song (la rilassata I Wouldn’t Let It Go). Ci sono anche momenti più energici, a volte ben realizzati come lo strumentale NWC, o il rock da FM americana Climbing Up That Hill, altre volte più anonimi come il banale hard rock conclusivo As Long As We Ride. In ogni caso la sensazione che si prova all’ascolto è quella di trovarsi al cospetto di un disco di transizione, nel quale la band prova, senza troppa convinzione, a trovare un nuovo canale espressivo per portare avanti la propria carriera tentando magari di raggiungere un pubblico più ampio.




SPOCK’S BEARD (InsideOut, 2006) – Il nono omonimo lavoro degli Spock’s Beard, il terzo realizzato senza l’ex leader Neal Morse, si apre alla grande. On A Perfect Day è infatti un gran bel brano di prog melodico che non avrebbe sfigurato se inserito all’interno di uno dei primi dischi: bell’arrangiamento, suoni delicati e stupende linee vocali. La traccia successiva è uno strumentale che non fa gridare al miracolo ma contribuisce a tendere vive le speranze di chi auspicava un ritorno della band nell’accogliente ovile del grande prog. La speranza si infrange col terzo pezzo, Is This Love, che sembra un brano, e pure di quelli brutti, di Bon Jovi. Le cose migliorano di poco con All That’s Left, discreta traccia di rock melodico senza particolari guizzi d’inventiva, e in maniera più massiccia con la lunga With Your Kiss, che se non altro prova a differenziarsi dalla classica suite sinfonica inserendo un’energica parte funkeggiante prima dell’intermezzo acustico e di un finalone ricco di pathos. Il disco continua a cambiare registro mostrando però una qualità altalenante, con l’anonimo rock-blues di Sometimes They Stay, Sometimes They Go e la facilmente dimenticabile Wherever You Stand, mentre la ballad pianistica Hereafter scivola via piacevole arrivando a toccare le corde del cuore. Nel finale di disco c’è spazio per una seconda suite nella quale, ancora una volta, vengono inseriti nuovi ingredienti (funky, fusion, sezioni di fiati, persino un coro di bambini) senza riuscire tuttavia a realizzare in extremis il colpo di genio che riesca a portare il disco un po’ al di sopra di una larga sufficienza, ma nulla di più.




X (Music Theories Recording, 2010) – Nonostante le traversie subite, la band taglia il traguardo del decimo album in studio come chiaramente annunciato dal numero romano che campeggia sulla copertina del disco (a dire il vero piuttosto anonima e per nulla celebrativa). Il lavoro viene autoprodotto dalla band grazie a una campagna di crowdfunding organizzata con i fan (che vengono ringraziati uno a uno sia nel booklet che citando i loro nomi in una bonus track inserita nella limited edition del disco). Dal punto di vista musicale il lavoro segna un ritorno della band nel sicuro alveo di un progressive più canonico, con brani lunghi e complessi il cui stile richiama a tratti la produzione dell’era “Morse”. Il brano di apertura, Edge Of The In-Between, è infatti una riuscita suite, caratterizzata da belle melodie vocali, cori in stile Yes e azzeccati intermezzi solistici, mentre la successiva Kamikaze è uno strumentale energico che permette alla band di mostrare la ben nota perizia tecnica. The Emperor’s Clothes è un brano orecchiabile nel quale, nonostante la durata contenuta, non mancano bizzarie strumentali e perfino una brevissima parte a cappella di scuola Gentle Giant che in passato rappresentava una chicca inserita spesso nei brani di lunga durata. Numerosi altri richiami al glorioso passato si possono trovare nel prosieguo del disco: una menzione particolare la merita la suite finale Jaws Of Heaven che lo chiude alla grande con un finale sinfonico da brividi, contribuendo a renderlo il migliore tra i primi quattro lavori realizzati senza Neal Morse.




BRIEF NOCTURNES AND DREAMLESS SLEEP (InsideOut, 2013) – Dopo il tour di presentazione di X (e ancora una volta segnando un curioso parallelismo con quanto accaduto ai Genesis), gli Spock’s Beard perdono Nick D’Virgilio, il talentuoso batterista che da FEEL EUPHORIA in poi aveva assunto anche il ruolo di principale vocalist del gruppo. Nonostante i quindici anni di lavoro con la band (e un’attività da turnista che lo vede persino partecipare alla registrazione di alcune tracce su CALLING ALL STATIONS dei Genesis), D’Virgilio si trova in condizione di dover far fronte alle esigenze economiche familiari accettando un lavoro più remunerativo e diventando pertanto batterista e vocalist della band del Cirque du Soleil che porta lo spettacolo TOTEM in giro per il mondo. Gli Spock’s Beard reagiscono all’ennesima defezione inserendo in pianta stabile come batterista quel Jimmy Keegan che già li supportava nelle performance dal vivo, e reclutano al microfono Ted Leonard, poliedrico artista membro degli Enchant. Leonard porta in dote una voce estremamente gradevole nonché il suo talento come chitarrista e compositore, tanto da mettere la firma su alcune tracce del nuovo album che vede la luce nel 2013. Alla scrittura del disco partecipano anche John Boegehold, uno degli autori che aveva affiancato la band nel periodo post-Neal Morse, e persino l’ex leader, evidentemente rimasto in buoni rapporti con i suoi compagni di un tempo. Le sette tracce che compongono la track list comprendono alcune gemme piuttosto splendenti, affiancate a brani di livello inferiore. Appartengono sicuramente alla prima categoria Afterthoughts, sorta di seguito apocrifo delle parti 1 e 2 di Thoughts, con tanto di suggestiva parte a cappella, e la bella suite Waiting For Me, non a caso proprio i due brani su cui Neal Morse mette la firma, ma anche Something Very Strange si fa apprezzare per il bell’arrangiamento, gli intrecci strumentali e per un ritornello di quelli che definire catchy è poco. Meno appariscenti, ma sicuramente non di basso livello, le restanti tracce tra cui meritevoli di citazione la trascinante Hiding Out e la lunga A Treasure Abandoned, brano di ampio respiro che richiama lo stile dei primi lavori.



THE OBLIVION PARTICLE (InsideOut, 2015) – Assorbito senza troppe conseguenze l’ennesimo scossone a livello di formazione, gli Spock’s Beard portano in tour BRIEF NOCTURNES AND DREAMLESS SLEEP, arrivando a toccare nuovamente l’Italia, nello specifico il 6 settembre 2014 con un’acclamata esibizione al Festival di Veruno. Il nuovo disco, il dodicesimo, esce l’anno successivo e vede come autori principali John Boegehold e Ted Leonard, con limitati contributi dei rimanenti membri fondatori. Il lavoro rappresenta un piccolo passo indietro rispetto al precedente, mostrando un livello qualitativo delle composizioni un po’ altalenante. L’inizio del disco non è affatto male e vede Ted Leonard perfettamente a suo agio nel ruolo di lead vocalist. Una particolare menzione va fatta per la seconda traccia, Minion, che in meno di sette minuti mostra una grande varietà di situazioni musicali, alternando il prog brioso a una sezione tranquilla ed emozionante, mentre l’orecchiabile Hell’s Got Enough viene resa appetibile ai vecchi fan grazie a una digressione strumentale che permette ad Alan Morse e Ryo Okumoto di mostrare il loro talento da virtuosi dello strumento. Meno riusciti appaiono brani quali Get Out While You Can e A Better Way To Fly, piuttosto orecchiabili ma senza particolari guizzi nemmeno a livello di arrangiamenti, mentre The Center Line almeno si fa notare per una bella introduzione pianistica e interessanti parti solistiche. Di medio livello è anche la lunga To Be Free Again, destinata a essere ascoltata senza lasciare particolari tracce (se non la curiosità di ascoltare Alan Morse alle prese con un Sitar), mentre la bella Disappear, rappresenta il colpo finale da fuoriclasse, grazie a indovinate melodie vocali e a un ottimo arrangiamento, reso ancor più raffinato dal violino dell’illustre ospite David Ragsdale dei Kansas.



NOISE FLOOR (InsideOut, 2018) – Non c’è pace per gli Spock’s Beard che, giunti al tredicesimo album in studio, perdono anche il batterista Jimmy Keegan e quindi, ridotti a un quartetto, chiedono aiuto per le registrazioni del nuovo disco all’ex Nick D’Virgilio, nel frattempo passato dal Cirque du Soleil ai Big Big Train. Nonostante le difficoltà, la band si impegna a dovere nella fase compositiva e dopo parecchi mesi in studio, durante i quali si avvale persino di una piccola orchestra, realizza un disco di ottimo livello, composto da tracce più semplici e fruibili rispetto alle gloriose cavalcate progressive del passato ma ancora in grado di accontentare pienamente i vecchi fan. Il tentativo di ampliare il bacino d’utenza, già provato più volte in passato, questa volta riesce particolarmente bene in quanto le otto tracce (dodici se si considera l’EP incluso nella confezione) affiancano melodie vocali particolarmente orecchiabili a sessioni strumentali efficaci come nel glorioso passato. Molto belle, in quest’ottica, To Breathe Another Day, entusiasmante fusione tra Kansas e Yes, Somebody Home, che mescola ottimamente la chitarra acustica agli archi a supportare belle linee vocali, la variegata strumentale Box Of Spiders o la struggente Beginnings, posta a dispetto del titolo a degna chiusura del lavoro. Merita attenzione anche l’EP allegato che, pur contenendo pezzi frutto delle medesime sessioni di registrazione ma esclusi dalla track list definitiva, si fa apprezzare non poco sia nei momenti tirati (il breve ma scatenato strumentale Armageddon Nervous) che in quelli più pacati (la dolce e melodica Days We’ll Remember).

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